febbraio 2012


Uno dei progetti che sta attraversando trasversalmente il Connettivismo, in questo periodo di evoluzione del Movimento, muove verso le mappe culturali del cosiddetto mainstream; ovvero dei prodotti culturali fruiti dalla moltitudine nazionale e internazionale, spesso assai poco interessata ai fenomeni di nicchia, o di avanguardia, in cui noi connettivisti abbiamo sempre trovato l’humus necessario affinché le nostre idee nascano, e prosperino, in modo così florido da costituire – questa è la nostra speranza – fonte di nutrimento per noi stessi e le generazioni di sperimentatori future.

In quest’esplorazione del mainstream sappiamo di avere molti autori come punti fermi, fari nella notte in grado di illuminarci sul chi siamo e su cosa possiamo essere nel tessuto del reale; il nostro intento è, ora, cercare di operare una trasformazione alchemica del reale, una mutazione che sia di portata epocale e in grado di aprire scenari nuovi, assimilabili nel futuro. Tra questi autori è bene ricordare un paio di nomi, tanto per dare delle coordinate non esaustive ma, comunque, valide: Ballard e Murakami.

Accanto a loro, mostri sacri della letteratura capaci di far filtrare strisce inquietanti di universi distopici nelle trame del nostro presente, mi piace citare (cito anche io, non sono certo stato il primo a scoprirlo) un nome italiano che indaga con la certosina attenzione di chi sa su quale strada ci stiamo incamminando: Lara Manni. Su Carmilla sta pubblicando da qualche tempo recensioni come questa, dove analizza nello specifico l’influenza delle tradizioni, delle fiabe, sul presente culturale. Lara nel suo articolo parte, appunto, da una fiaba russa – assai simile, come inizio, a Pinocchio – in cui si sublima il desiderio di maternità e paternità di una coppia, che ha fornito lo spunto per il romanzo di esordio di Eowyn Ivey, La bambina di neve, che traspone la storia nel gelo dell’Alaska. Scrive Lara Manni:

L’innesto della fiaba classica in un romanzo contemporaneo, infatti, è una tendenza che interessa non pochi scrittori, fino a diventare – ineluttabilmente – filone editoriale emergente negli Stati Uniti. Qualche tempo fa, Editrice Nord ha pubblicato una raccolta di racconti di Andrzej Sapkovski dal titolo Il guardiano degli innocenti, che è stata salutata con favore dai lettori di fantastico italiani più per il riferimento al videogioco che ne è stato tratto che per la derivazione fiabesca. Il protagonista, Geralt di Rivia, è un Witcher, uno strigo che combatte mostri in una serie di quest replicabili all’infinito. Lo strigo vince sempre, ha un suo codice etico, sufficiente cinismo, molto orgoglio, abbastanza carnalità da intrattenersi con fanciulle di passaggio. E soprattutto agisce all’interno di fiabe e miti: c’è la rivisitazione al nero di Biancaneve, si accenna alla fuga di Cenerentola dal ballo, Raperonzolo diviene l’emblema di un culto femminile proibito.

Ecco, il compito dei personaggi del fantastico cambia connotati, in questo periodo storico, perdendo un po’ delle caratteristiche canonizzate del genere, ovvero lo stacco dal reale per farci volare, portarci in una capsula astrusa dove il reale appare un continuum lontano, irraggiungibile; la tendenza di adesso tende, invece, a cercare di tenersi ben più saldi su quello che abbiamo attorno, lo stacco di fantasia non va più in orbita ma sembra in grado di contaminare il nostro mondo tattile, operando un’invasione che è ben più reale e fattibile, e ciò è per certi versi un metodo ancor più rivoluzionario del vecchio modo di intendere il genere: è il colare dell’universo fantastico su ogni poro del reale.

È un po’ come investire di nuova missione gli autori del nostro genere preferito: non più fuga ma incursione sul mondo in cui tutti si muovono. Stiamo accendendo continuamente lumini lungo un sentiero che pensavamo non fosse il nostro; ci stiamo accorgendo di essere in tanti a farlo, davvero pronti a fare qualcosa di nuovo, soltanto vivendo l’usuale.

“Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.”
(George Orwell, 1984)

George Orwell - 1984

L’acceso dibattito internazionale sull’editoria digitale e le proteste contro le proposte legislative tese alla sorveglianza e alla censura del web sono un segnale, uno dei più recenti, del cambiamento epocale che ci sta coinvolgendo, la transizione verso l’età digitale, che vedrà ogni tipo di contenuto e informazione affidato esclusivamente a supporti informatici, con conseguenze che spazieranno dal vivere quotidiano ai rapporti sociali.

La rapidità con la quale ci stiamo inoltrando in questa nuova epoca non dovrebbe far sottovalutare problematiche come la conservazione di tutti questi dati, la loro organizzazione (tema sul quale recentemente sono usciti diversi interessanti articoli), nonché soprattutto la facilità di alterazione delle informazioni preservate solo digitalmente.

In realtà, l’uomo ha sempre avuto a che fare con il problema della salvaguardia e della trasmissione del sapere. Il supporto per la forma scritta, ad esempio, ha una storia millenaria, che risale alle tavolette d’argilla incise di glifi cuneiformi, ai rotoli di papiro, ai codici di pergamena, fino alla carta e alla stampa. Un patrimonio che ci è pervenuto parzialmente a causa del deterioramento del supporto stesso o di eventi calamitosi, in conseguenza a scelte di valore di un’opera rispetto a un’altra, e molto spesso attraverso trascrizioni successive − e di frequente il testo originario, volontariamente o meno, veniva sbagliato, interpretato, modificato.

Se per l’essere umano è più che naturale tanto ricordare quanto dimenticare (si pensi a come tale concetto sia reso in stupefacente sintesi simbolica nei due dipinti di Salvador Dalì, La persistenza della memoria e La distruzione della persistenza della memoria), è altrettanto fondamentale che storia e cultura siano gelosamente custodite.

Ai nostri giorni persiste innanzitutto la minaccia del deterioramento o scomparsa dei record digitali e dei relativi supporti. Mantenere e sviluppare archivi informatici, infatti, non è gratuito né del tutto sicuro: ciò che si può digitalizzare, si può altrettanto facilmente distruggere. Se per qualche motivo interi archivi digitali di biblioteche, redazioni, case editrici, cinematografiche o musicali, ma anche piattaforme web, chiudessero o cancellassero tutti i loro file – banalmente per un problema legato al provider di servizi o per motivi economici che non permettono di mantenere oltre la propria attività – verrebbero meno in un attimo interi segmenti delle nostre vite (si pensi al caso italiano di Splinder), ma soprattutto parti fondamentali della storia e della conoscenza.
D’altra parte, anche conservare i dati su supporti magnetici o informatici si dimostra efficace solo in parte, dal momento che i materiali a disposizione sono comunque degradabili, benché a medio-lungo termine; inoltre gli strumenti per la lettura di tali formati divengono rapidamente obsoleti e inutilizzabili (paradosso che affligge addirittura il Pentagono e la NASA, definiti “cimiteri di informazioni perdute”).
Un timore, l’oblio della memoria e del passato, che si avverte in Anathem di Neal Stephenson, romanzo in cui vengono presentati due estremi opposti: una comunità di scienziati, rinchiusi in una sorta di inaccessibile e granitico convento sul pianeta Arbre, che tendono al recupero delle potenzialità della propria mente, contrapposti al modus vivendi dei civili, guidato da un’esasperazione della tecnologia e dello short term.

La digitalizzazione della cultura e dell’informazione, persino dei propri dati personali, ha iniziato inoltre ad affidarsi non solo all’hardware, ma si sta spostando in maniera massiccia verso il cloud computing, sistema che se da un lato garantisce il vantaggio di una condivisione immediata di illimitate informazioni con milioni di persone, da un altro, oltre a mettere seriamente in discussione i protocolli di sicurezza e della privacy, è estremamente fragile, manipolabile, cancellabile.
Mettersi nelle mani di immensi e potenti servizi centralizzati, già oggi multinazionali con interessi globali, potrebbe essere rischioso. Inevitabile pensare a 1984 di George Orwell, dove Winston Smith è incaricato di correggere libri e articoli di giornali già pubblicati o ritoccare la storia scritta, apportando modifiche tali da rendere attendibili le previsioni e le azioni dal Partito, alimentandone la fama di infallibilità.

La facile contraffazione e rielaborazione dell’informazione, che nelle sue estreme conseguenze diviene privazione della libertà individuale e del libero arbitrio, perdita dell’identità propria, storica e sociale, non è così remota, proprio perché una volta che vecchi e nuovi archivi saranno memorizzati esclusivamente online e in sistemi cloud unificati, la possibilità di modificarli diventa alquanto semplice e incontestabile, soprattutto se vengono meno altri termini di confronto, conservati su altri supporti o allocati altrove. In questa maniera, porzioni intere del passato possono venire definitivamente cancellate o alterate, sacrificate alla logica del profitto, della censura, della sopraffazione; gli individui precipiterebbero in una realtà di sostanziale ignoranza, poiché altri deciderebbero cosa e in quale modo sarebbe lecito conoscere qualcosa.
Se persino la mente umana fosse, poi, parzialmente o del tutto collegata a simili sistemi centralizzati, anche quanto in essa preservato potrebbe subire facilmente un simile trattamento – si pensi agli scenari di Johnny Mnemonico di William Gibson, per esempio.

Problemi che riguardano la sfera individuale e sociale, quanto la conservazione di tutti gli aspetti della nostra civiltà, dalla letteratura alla scienza e alla storia, e che hanno spronato la nascita di commissioni governative, fondazioni private e associazioni filantropiche di intellettuali (la nota Long Now Foundation, per citare un esempio), alla ricerca di risposte a preoccupazioni ancora sottostimate: sommersi da una mole sovrabbondante di informazioni, molte superflue o inutili al di là dell’immediato, stiamo ancora cercando di risolvere l’arcano dilemma di proteggere le nostre memorie e la nostra libertà di pensiero, di preservare testimonianze autentiche della nostra stessa esistenza anche nel più lontano futuro.

Speciale PKD (1 di 3): Il mondo che Dick creò

3. “Putrìo, putrìo!” disse il piccolo Manfred Steiner. Come rilevato da importanti commentatori, l’opera di Dick costituisce un corpus unico nella letteratura americana della seconda metà del Novecento (cfr. C. Pagetti, Uomini e androidi). L’affermazione è comprovata dall’ormai inquantificabile numero delle influenze, più o meno dirette, esercitate dall’autore californiano su altri protagonisti del panorama culturale: non solo i cyberpunk, che non hanno mai nascosto la loro ammirazione per lui (soprattutto con gli elementi più scalmanati del gruppo, Rudy Rucker e John Shirley su tutti), ma anche tra i loro precursori (i citati Jeter e Powers, che furono frequentatori dell’autore nei suoi ultimi anni) e tra gli avant-pop Dick può vantare agguerriti ammiratori, come Jonathan Lethem e Steve Erickson. La sua influenza è inoltre riscontrabile in Greg Egan, Michael Marshall Smith e Richard K. Morgan, tra i nomi di maggior interesse emersi dalla fantascienza di questi ultimi anni. E se Banana Yoshimoto, acclamata scrittrice nipponica, arriva a citarlo direttamente nelle sue opere (Amrita), in ambito cinematografico Andrew Niccol (Gattaca, The Truman Show, S1m0ne, In time), Alex Proyas (Il Corvo, Dark City), David Cronenberg (eXistenZ), David Lynch (Strade Perdute, Mulholland Drive), Richard Linklater (Waking Life, A Scanner Darkly), Richard Kelly (autore del piccolo cult Donnie Darko e di Southland Tales), Darren Aronofsky (Pi – Il teorema del delirio), Michel Gondry (Se mi lasci ti cancello), Terry Gilliam (BrazilL’esercito delle 12 scimmie) e i fratelli Andy e Larry Wachowsky (artefici del fenomeno Matrix, che molto deve alle ossessioni dickiane) hanno in qualche modo continuato sul grande schermo un discorso intrapreso da Dick, con le sue folgorazioni e intuizioni purtroppo stroncate dall’improvvisa scomparsa. Anche nel mondo delle graphic novel Dick può vantare sostenitori irriducibili, come ad esempio gli autori culto Alan Moore (V for Vendetta), Enki Bilal (Il sonno del mostro, 32 dicembre), Warren Ellis (TransmetropolitanGlobal Frequency), Grant Morrison (The Filth). E il suo influsso non si esaurisce certo qui, vista la profonda affinità, di temi e di approccio, che lo lega a doppio filo con un altro grande della letteratura contemporanea (il più grande, secondo alcuni): Thomas Pynchon.
La letteratura di Dick si nutre in primo luogo di ambiguità (cfr. V. Curtoni, L’ambiguità al potere): i confini del suo mondo sono labili e sfumati, come quelli della percezione. Qualcuno dei suoi personaggi non si arrende allo scacco e anzi si sforza di sfruttare questa consapevolezza per piegare il mondo al proprio potere, come il sinistro Bertold Goltz, leader dell’organizzazione neo-nazista dei Figli di Giobbe che ne I Simulacri progetta di tornare indietro nel tempo per salvare addirittura lo spietato gerarca Hermann Goering; qualcun altro, invece, accetta la verità con fatalistica rassegnazione, come il cacciatore di androidi Rick Deckard o il semivivo Joe Chip di Ubik. Su questa distinzione si fonda la classificazione definitiva del genere umano, operata da Dick sull’impulso della sua notoria attitudine all’ideazione di nuovi sistemi sociali: gli uomini di potere e i loro sottoposti. Ma se pure la lotta si consuma tra loro, la realtà non fa distinzioni di classe e il destino sa prendersi gioco di tutti, senza preferenze. È proprio a questo punto, sul campo sgombrato dai minacciosi rivali, che emergono sulla scena gli ultimi, i diseredati, tenuti ai margini del flusso decisionale tanto dai custodi del segreto (che Dick chiama con il termine tedesco Geheimnisträger), quanto dagli esecutori di ordini (i Befehlträger): individui talmente in basso nella scala sociale da non essere ritenuti nemmeno idonei a mettere in atto un comando. Il demiurgo dell’universo narrativo dickiano è una semidivinità capricciosa e inaffidabile, per questo la sua simpatia (come d’altronde quella del lettore e quella dell’autore stesso) va a questi individui: Manfred Steiner (Noi Marziani), Plautus Kongrosian (I Simulacri), John R. Isidore (Cacciatore di androidi). Sono gli umili, i deboli, i mutanti, i subnormali, i diversi. Solo a loro Dick riserva la misericordia del riscatto, in virtù della loro semplicità e innocenza, del loro essere “candidi”.
La salvezza e il futuro sono nelle loro mani, non in quelle dei capitani d’industria, dei leader politici, dei superuomini. Al contempo una crudele ironia e una grande fortuna.

3.1 L’eco del sogno. L’ambiguità genera tutta la gamma cromatica dello spettro narrativo di Philip K. Dick. L’indistinguibilità tra umano e artificiale può allora traslare verso la confusione tra il reale e la simulazione. Praticamente tutti i romanzi di Dick si confrontano con questo tema: qual è la realtà? Cosa è reale?
Ogni libro di Dick ha una componente ludica che rende necessaria, in qualche modo, la partecipazione del lettore per sbrogliare la matassa della narrazione. In questo senso, come è possibile farlo per Pynchon, potremmo paragonare i romanzi di Dick a dei prototipi di elaboratore quantistico: nelle sue pagine diversi piani di realtà scivolano gli uni sugli altri, come gli strati in movimento di un fluido ideale, compenetrandosi e degenerando gli uni negli altri. L’immagine viene resa con una soluzione efficace dalle facoltà dei precog di Ubik e dal JJ-180 di Illusione di potere (una droga neurotropa potentissima, chiamata anche frohedadrina, “dal tedesco Froh, gioia, e dalla radice greca hed, che indica il piacere”): entrambe mostrano il futuro come una coesistenza di possibili linee evolutive caratterizzate da diversi livelli di probabilità. Sta al soggetto interessato fare la propria scelta, provocando la riduzione dello stato ad un unico futuro possibile.
Lo stesso accade nei romanzi di Dick. La sovrapposizione dura fino allo scioglimento, quando lo stato del sistema collassa per effetto della riduzione, e davanti al lettore si presenta finalmente la risposta. In un parallelo metafisico che Dick forse avrebbe gradito, potremmo dire che è allora che la verità viene rivelata. E agli occhi del lettore si presenta lo stesso scenario che attanaglia le visioni e gli incubi del piccolo Manfred, lo stesso panorama che si mostra ai “prigionieri” del Labirinto di morte (A Maze of Death, 1970), quasi un preludio alla successiva svolta mistica di Dick, la stessa landa di desolazione piegata al kipple, “un quadro di decadimento e assoluta, eterna distruzione”. La realtà vera sa essere ben peggiore di quella percepita dai nostri sensi, come c’insegna proprio Labirinto di morte, uno dei più cupi e angosciosi apologhi dickiani sulla fallacia delle percezioni, dove la simulazione di un mondo alieno, incomprensibile e soffocante, maschera la triste verità di un irrevocabile ergastolo gravitazionale.

3.2 Giro turistico per le stanze del moratorium. Nella sua breve ma intensissima carriera come scrittore di robaccia fantascientifica, Philip K. Dick è riuscito a parlare di temi tristemente attuali e a inserirsi con autorevolezza in una discussione filosofica che procede da secoli, senza mai far mancare al lettore il gusto di una trama coinvolgente ed elettrizzante. I colpi di scena e l’azione, spesso ispirati da un senso dell’umorismo irriverente se non proprio dissacratorio, celano una lucida discussione sul senso più profondo della condizione umana. I suoi androidi, i simulacri, i mutanti provvisti di facoltà straordinarie (telepatici, paracinetici, precognitivi), i subnormali che affollano le sue pagine, incarnano tutti una metafora, attori di una trasposizione teatrale della tragedia del vivere.
Il discorso di Dick è stato trasversale alle più disparate discipline del pensiero. Parlando della natura della realtà attraverso la discussione della nostra purezza percettiva, Dick approda a un discorso più ampio sulla possibilità del trascendente e del divino; discutendo la fallacia delle nostre percezioni, si è fatto testimone del fenomeno della tossicodipendenza, evolvendo le proprie posizioni rispetto alla droga dal liberale sperimentatore degli esordi alla definitiva, aspra disapprovazione delle conseguenze distruttive della sua assunzione e del suo possibile utilizzo come forma di controllo sociale; e qui ecco un nuovo salto, verso la disamina feroce del potere e dei suoi meccanismi di perpetuazione (l’iterazione infinita di modelli, imprigionati nella forma elettronica dei simulacri di capi di stato ormai morti), che conduce invariabilmente a sentenze di condanna senza appello, a prescindere dal segno o dal colore ideologico usato come specchio per le allodole. Ma il Dick più amato, almeno a giudicare da quell’autentico fenomeno di culto in cui si è trasformato Blade Runner negli anni (è bene ricordare che alla sua uscita il film si attirò critiche severe e si rivelò un fiasco commerciale), è quello che anticipa il dibattito etico di pressante attualità sui confini tra la vita biologica e la vita artificiale, sulle possibilità di discriminazione che sono concesse agli uomini per decidere dove finisca l’una e cominci l’altra, sui rapporti di sfruttamento ed emulazione tra i creatori e le creature.
Non deve essere un caso se per lungo tempo Dick ha considerato proprio Do Androids Dream of Electric Sheep? come la sua opera più riuscita. Anche perché, da amante delle anatre e delle pecore, sentiva il libro particolarmente vicino alle sue posizioni, per il modo in cui affrontava un tema a lui particolarmente caro come “il rapporto dell’uomo con gli animali”.

Analizzando su Carmilla due pubblicazioni recenti – 1Q84 di Murakami Haruki (Einaudi) e 22/11/63 di Stephen King (Sperling&Kupfer) – Lara Manni vota come soluzione per traghettare la letteratura del fantastico fuori dal ghetto editoriale l’invasione/intrusione del mainstream:

“[…] Se c’è una via per sfuggire alla nicchia, alle costrizioni editoriali, al malinteso post-tolkieniano, è proprio quella di sfumare i confini, o di contaminare, dall’interno, il mainstream. Facendo colare un mondo nell’altro, ricordava King: come liquido dal fondo di un sacchetto di carta.”

Soluzione che condivido e sottoscrivo.
Ma, a livello operativo, come fare per “conquistare” il mainstream?

In Italia, noi addetti al fantastico siamo malati cronici di scenario e ambientazione. Qualche volta ci riesce bene (uno su tutti, Dario Tonani con Infect@ & Co.) ma è ovvio che non basta. Dimentichiamo, o curiamo poco, i personaggi e le tematiche col rischio di produrre una grande quantità di contenitori e una bassa qualità di contenuti (per non far di tutta l’erba un fascio, a scanso d’equivoci, va citata Clelia Farris con Nessun uomo è mio fratello, romanzo sull’impunità vincitore del Premio Odissea 2009). Spesso sorvoliamo sullo stile e la lingua.

C’è un romanzo – mainstream e italiano – che nei punti deboli storici del patrio fantastico ha le sue fondamenta: Accabadora, di Michela Murgia, Premio Campiello 2010. In una storia che parte a ridosso della fine della Seconda Guerra ci sono personaggi con la “P” maiuscola (profondi, verosimili, tridimensionali), una lingua molto curata senza essere eccessivamente letteraria e grandi temi (morte ed eutanasia, condizione femminile). Lo scenario, la Sardegna e il Piemonte tra i ’50 e i ’60 del secolo scorso, viene filtrato nella descrizione degli spazi domestici, quasi un’estensione della psicologia dei personaggi. E per dirla tutta, c’è anche un pizzico di fantastico – l’intangibile, il misterioso, il sesto senso – declinato sotto forma di gotico rurale un po’ più metafisico di quello di baldiniana memoria.

Al di là dei mostri sacri del passato (Buzzati-Calvino-Levi) e del presente (Evangelisti) – esempi diametralmente opposti, dal maistream al fantastico e viceversa – nel futuro è giusto aspettarsi in “fondo al sacchetto di carta” gli autori mainstream nella veste di salvatori del fantastico o auspicare che l’invasione parta dall’altro lato della frontiera?

Prendendo spunto dalle riflessioni sugli androidi e replicanti operate da Oedipa_Drake, m’inserisco nella discussione confermando tutte le sue suggestioni, gli spunti che portano in misura diversa alla definizione, in sostanza, del postumano.

La mia intenzione, ora, è inserire nel thread che spero si origini da quelle righe seminali, un nuovo argomento, in qualche modo affrontato da X – pur se non esaustivamente dal punto di vista postumano – quando su NeXT 13 scriveva il suo articolo Paul Krugman: dalla frontiera del commercio.

Parliamo tutti, chi più chi meno, all’interno del Movimento e non solo, di futuro, di come la tecnologia e le semantiche scaturite da essa potranno cambiare la nostra vita, allungandola, fortificandola, diversificandola. Forse però dimentichiamo un particolare che, in questi momenti di crollo dei modelli finanziari, può generare uno stop o peggio, un’involuzione delle nostre speranze: la crisi delle fonti economiche. Sappiamo che alla base del progresso c’è, sostanzialmente, la disponibilità di ingenti fondi da investire, capitale che ora o nel futuro potrebbe venire a mancare, per rivoluzioni finanziarie o politiche; il baratro di un nuovo Medioevo è sempre presente, è lo spettro che agita i sonni di chi rivolge la sua attenzione ai nuovi giorni. Le vie per arrivare a un tale scenario sono molteplici; se le necessità energetiche, per esempio, dovessero portarci all’esaurimento delle fonti petrolifere, senza che nel frattempo sia stata trovata una valida alternativa, cosa succederebbe alla nostra civiltà? Stiamo trasferendo tutto il nostro sapere, buona parte delle nostre vite sociali, su supporti che funzionano con l’elettricità; senza di essa, perderemmo una cospicua percentuale della nostra vita attuale e a quel punto, come si potrebbe parlare di nuova umanità o, per rimanere ancorati ai nostri modelli antropologici, di avvenire, di progresso? Ci troveremmo tutti, all’improvviso, precipitati in un baratro di pure dimensioni umane, lontani dai nostri migliori sogni di espansione fisica, cerebrale, di trasferimento della coscienza su altri tipi di carapaci.

Un altro scenario che potrebbe portare a un netto ridimensionamento del futuro è una crisi finanziaria dettata da mancanza di liquidità, da una presa di coscienza che il patrimonio mondiale ha comunque un valore finito, può scatenare un’altra versione di Medioevo dove le lotte sociali, le guerre civili, i disastri culturali e ambientali susseguenti potrebbero portare a un’involuzione, dove soltanto un’oligarchia potrebbe permettersi le cure migliori, la vita migliore, i giorni migliori; spostando un po’ più in là il ragionamento, potrebbero essere loro i postumani d’elite.

Queste espresse sono solo le ultima opzioni di una pletora di distopie possibili, tutte terrificanti e apocalittiche specialmente se dovessero accadere in concomitanza (ipotesi tutt’altro che peregrina) in cui l’argomento progressista degli androidi, del mind uploading e delle IA sarebbe vanificato da una mancanza finanziaria, reso soltanto un breve sogno dell’umanità, dimenticato nel breve volgere di poche generazioni.

Lo sforzo più grande che dobbiamo fare ora, noi esseri occidentali del secondo decennio del terzo millennio, è duplice: da un lato alimentare la fornace del sogno, fare che diventi sempre più bello e possibile, ma anche vigilare e operare nel presente, nell’ambito delle nostre limitate possibilità e cercando di non remare contro, affinché i fondamenti di questi sogni rimangano stabili, fattibili. Dipende anche da noi se tutto quello che auspichiamo diventerà davvero reale, se davvero consegneremo il nostro mondo a qualcuno che saprà svilupparlo meglio di noi perché avrà potenzialità migliori delle nostre, raccogliendo il nostro testimone che ora è saldamente nelle nostre mani.

Il 2 marzo 1982 Philip K. Dick moriva per le conseguenze di un collasso cardiaco a soli cinquantatré anni. La sua vita, segnata dalle difficoltà economiche, dalle delusioni artistiche e da uno stato quasi costante di paranoia, è emblematica per molti versi della vita dello scrittore di fantascienza. Per ironia della sorte, i problemi incontrati nel farsi considerare dalla critica si sono dileguati con la scomparsa dell’autore. Pochi altri scrittori hanno conosciuto il suo successo postumo: dapprima grazie al forte, persistente radicamento di Blade Runner nel nostro immaginario, poi  con la stagione ininterrotta della trasposizione cinematografica dei suoi lavori, in cui le major hollywoodiane sembrano aver scoperto un’inesauribile miniera d’oro, e infine con l’inclusione nella prestigiosa Library of America.

Noi di HyperNext abbiamo deciso di ricordarlo a modo nostro, ripercorrendone la vita, le opere… e l’eterno ciclo della resurrezione artificiale. A partire da oggi e per tre settimane, ogni venerdì proporrò una parte del mio articolo Philip K. Dick Androide: il sogno del replicante, originariamente apparso sull’Iterazione 04 di NeXT, nel 2006, e rivisitato per l’occasione.

1. Un grande scrittore del XXI secolo. Fanta-filosofo dell’era quantistica”, così il profeta dell’LSD e della contestazione Timothy Leary ha osato definire Dick. Sentendolo, probabilmente Dick sarebbe esploso in una risata, lui che in vita pubblicò 35 romanzi e 120 racconti senza raggiungere mai la fatidica soglia delle centomila copie vendute. C’era sì lo zoccolo duro dei lettori innamorati del suo mondo narrativo, adepti di un culto esoterico di cui Dick era sacerdote e messia, ma le frange più conservatrici del genere la sua opera non la consideravano nemmeno come prodotto di fantascienza. Afflitto da ciò, Dick arrivò ad annotare su un taccuino queste parole, esplicative del suo pensiero sull’argomento: “scrivere fantascienza è un atto di autodistruzione”.
Il destino, anche con lui, ha trovato il modo per essere beffardo: si è dovuta attendere la sua morte per assistere alla sua riscoperta. Oggi, grazie anche al successo di pellicole come Blade Runner (Ridley Scott, 1982; seguito dieci anni dopo dal Director’s Cut, più cupo e vicino alla sensibilità dickiana), Atto di forza (Total Recall, Paul Verhoeven, 1990) e Minority Report (Steven Spielberg, 2002), Dick è un autore che con le sue ristampe vende milioni di copie, assurto da protagonista di un culto un po’ marginale e guru della sottocultura degli anni ’70 a idolo della critica e del grande pubblico. È tempo di sdoganamenti, dopotutto, e ormai si direbbe che non sia rimasto più nessuno che non abbia letto qualcosa di lui (più che di suo). La sua atipicità, degenerata in autentica unicità, veniva vista da noi ancora negli anni Novanta come un ostacolo alla sua comprensione e fortuna. Pregiudizi degli addetti ai lavori, verrebbe da dire, viste come sono andate poi le cose…

2. Il mondo che Dick creò. Il 16 dicembre 1928, a Chicago, i bambini di Dorothy Kindred Dick nacquero prematuri di sei settimane. Il 26 gennaio Jane morì. La colpa della sua morte fu attribuita alla madre, che più volte si rifiutò di cercare un adeguato aiuto medico, sottovalutando la gravità delle condizioni della neonata. Phil, invece, sopravvisse. La difficoltà nei suoi rapporti familiari ha forse le sue radici in questo dramma, fatto sta che Dick avrebbe dipinto sempre sua madre come una donna fredda e una figura distante. La piccola Jane fu sepolta in Colorado, in una tomba preparata con due targhette. La prima recava la classica scritta: “Jane K. Dick, 1928-1929”. La seconda era la placca destinata a suo fratello e ancora incompleta: “Philip K. Dick, 1928- ”. Quello spazio vuoto dopo il trattino, insieme all’idea colpevolizzante di essere sopravvissuto alla gemella, avrebbe ossessionato Dick per il resto della vita. A un certo punto, Dick sarebbe addirittura giunto a dichiarare di aver mantenuto sempre, per tutta la durata della sua esistenza, un legame spirituale con Jane.
Approdato in California nel 1930, in seguito al divorzio dei genitori arrivò a Washington DC due anni più tardi insieme alla madre. Nel 1940 fece ritorno a Berkeley, e da allora la sua vita si sarebbe snodata fino alla fine nel Golden State.
A partire dai 14 anni e per i successivi trenta, Dick fu in analisi presso tutta una schiera di psichiatri, delle scuole di pensiero più disparate; inizialmente per curare la sua agorafobia, poi per tutta una serie di altri disturbi psicologici. Solitario, schivo e introspettivo, rivelò fin da bambino una certa problematicità nei rapporti umani. Odiava lo sport, soffriva di ansia e tachicardia, dubitava degli altri e di se stesso. Negli anni giovanili di Berkeley, la culla della controcultura americana e della contestazione, Dick si avvicinò al movimento studentesco e si oppose con una certa passione all’intervento militare in Corea. Per essersi rifiutato di ottemperare agli obblighi di leva, fu costretto a interrompere gli studi. Per sopravvivere sperimentò allora tutta una serie di lavoretti: da disc-jockey esperto di musica classica in una radio di San Mateo a commesso in un negozio di dischi. Tuttavia non interruppe mai i suoi studi: appassionato di letteratura, storia e filosofia, s’impegnò a fondo da autodidatta frenetico, curioso ed entusiasta. Si sposò per la prima volta poco più che ventenne con la prima ragazza della sua vita, Janet Marlin: una sorta di ricompensa, narrano alcuni biografi, per aver ricevuto finalmente la tanto sospirata prova di non essere omosessuale. Non sarebbe durata a lungo.

2.1 I ruggenti anni Cinquanta. Nel 1950 Dick divorziò e si risposò con Kleo Apostolides, una militante comunista di origini greche. Fu proprio in quegli anni, mentre Richard Nixon saliva al soglio della vicepresidenza per Eisenhower, dopo essersi messo in (pessima) luce come zelante membro della Commissione di repressione delle attività antiamericane, che Dick tentò per la prima volta la via della scrittura. Alla fantascienza Dick si avvicinò presto, ma prima di cominciare a scriverne dovettero passare diversi anni: la folgorazione giunse dopo aver seguito un corso di Anthony Boucher, stimato autore e critico di rilievo degli anni Quaranta e Cinquanta.
La fantascienza dell’epoca non aveva perso ancora i suoi connotati più ingenui. In quegli anni Heinlein, Asimov e Clarke andavano a guadagnarsi il ruolo di stelle riconosciute nel firmamento della Golden Age e sarebbero presto emersi i nomi di Leiber, Bester, Bradbury, Sheckley, Kornbluth e Pohl, Brown e Matheson, ma l’immagine del genere restava legata a poco plausibili avventure di eroi imbattibili sullo sfondo esotico di improbabili scenari alieni. Appassionato lettore di H.P. Lovecraft e Alfred E. van Vogt, Philip K. Dick preparò la sua personale risposta chiudendosi in casa, ascoltando musica classica, leggendo con metodo e ossessione e scrivendo compulsivamente a macchina. Si stima che tra il ’51 e il ’55 portò a termine quattro romanzi e sessantadue racconti: per reggere il ritmo, si rivolse all’ausilio chimico delle amfetamine. Ne assumeva in quantità massicce e se questa mossa lo ripagò all’inizio con un’enorme prolificità, avrebbe avuto alla lunga gravi conseguenze per la sua salute, contribuendo inoltre a minare la stabilità della sua personalità. Eppure Dick considerò sempre l’assunzione delle droghe come una risposta pragmatica ai problemi che lo affliggevano: senza, non sarebbe arrivato a scrivere le sessanta pagine al giorno che in certi periodi segnavano il ritmo della sua produzione.
Soprattutto nei primi anni Cinquanta, la produzione di storie brevi fu intensissima. Il primo racconto, l’ormai mitico “Ora tocca al wub”, lo vendette nel 1954 proprio alla rivista di cui Boucher era caporedattore, Planet Stories. Del periodo sono anche piccoli gioielli come “Impostore” e “Modello due” (1953), “Squadra riparazioni” e “La cosa-padre” (1954), “Autofac” e “Foster, sei morto!” (1955), “Rapporto di minoranza” (1956). Il primo romanzo gli fu pubblicato nel 1955: si trattava de Il disco di fiamma (conosciuto anche come Lotteria dello spazio, Solar Lottery). La sua produzione fu fin dagli esordi tematicamente variegata, come se Dick volesse dire la sua in tutti i mercati disponibili per il genere, parlando alle sue diverse anime, al punto che lo stesso Boucher giunse a definirlo “un abile trasformista”. Le sue letture (Camus, Kafka, Pound, Joyce) ebbero in quegli anni un grande influsso sulla sua crescita letteraria: in tutte le opere di questo primo periodo è possibile individuare istanze tipiche dell’esistenzialismo, reinterpretate alla luce della personale sensibilità dickiana. Così, alle domande classiche sul senso della vita e il ruolo dell’uomo nel mondo, nella storia e nella società, Dick finì per aggiungere un altro importante interrogativo: “ma noi siamo davvero chi crediamo di essere?”. Questo tema diventerà uno dei pilastri portanti della sua opera, sviscerato sotto ogni possibile aspetto.
Anche la politica rivestì un ruolo di particolare importanza nella sua crescita artistica, tanto che Dick indisse una vera e propria crociata contro Richard Nixon, già braccio destro del famigerato senatore McCarthy. “Tricky Dick”, Dick il vizioso come veniva soprannominato il senatore repubblicano, assumeva agli occhi di PKD i tratti del potenziale dittatore reazionario, del nemico terribile, dell’incarnazione del male assoluto. E la sua ombra aleggia su molte figure letterarie di oppressori politici, a partire dalla figura marginale di Ernest T. Saunders, “il blando, semplice candidato dell’estremistico Partito Nazionalista” che diventa Presidente del Governo Federale nell’acerbo ma importante Il mondo che Jones creò (The World Jones Made, 1954).
D’altro canto l’incertezza della realtà, la paranoia, il rischio della manipolazione si fondono in una vocazione apocalittica sincera e ispirata, come dimostra il primo capolavoro dato alle stampe da Dick: L’uomo dei giochi a premio (noto anche come Tempo fuori luogo o Tempo fuor di sesto, Time Out of Joint, 1959), che nel 1998 avrebbe ispirato il regista Peter Weir, lo sceneggiatore Andrew Niccol e l’istrionico Jim Carrey per il sorprendente The Truman Show.

2.2 La stagione della contestazione. In cerca di tranquillità dopo i frenetici anni di Berkeley, Dick si trasferì a Point Reyes Station, nella contea di Marin, cinquanta chilometri a nord di San Francisco. Le sue opere cominciarono a rispecchiare i travagliati rapporti familiari con la sua terza moglie, Anne Williams Rubenstein. Vedova del poeta Rubenstein, Anne era una donna colta e dalla forte volontà, già madre di tre bambine quando sposò Dick nel 1958. Colto da improvvisa passione, lo scrittore aveva lasciato d’impulso Kleo e si era legato in matrimonio con Anne. Da lei ebbe la sua prima figlia, Laura Archer. Ma il loro rapporto era tanto stimolante quanto frustrante: se da un lato Anne spinse Philip Dick a esplorare strade diverse dai sentieri a lui familiari della fantascienza, la risposta negativa degli editori alle sue ambizioni mainstream furono per lui un colpo insostenibile. Nella sua paranoia, Dick si convinse progressivamente che la moglie avesse già assassinato il suo primo marito e ora si accingesse a fare lo stesso con lui. Così si separò da lei per trasferirsi a San Francisco sul finire di un anno, come vedremo, cruciale: il 1964.
Dal 1962 in poi Dick riuscì a dedicarsi all’attività di scrittore a tempo pieno. Da classico freelance writer, Dick produceva con un ritmo intensissimo. Specialmente negli anni Sessanta, come dimostra la sua bibliografia: non più racconti (la cui produzione si dirada drasticamente), ma romanzi, a partire da  La Svastica sul Sole (noto anche come L’uomo nell’alto castello, The Man in the High Castle, 1962), che guadagnò all’autore il suo unico premio Hugo; seguirono nello stesso periodo I giocatori di Titano (The Game-Players of Titan, 1963), I simulacri (The Simulacra, 1964), La penultima verità (The Penultimate Truth, 1964), Noi marziani (Martian Time-Slip, 1964), Follia per sette clan (Clans of the Alphane Moon, 1964), Le tre stimmate di Palmer Eldritch (The Three Stigmata of Palmer Eldritch, 1965), Cronache del dopobomba (Dr. Bloodmoney, or How We Got Along After the Bomb, 1965), Illusione di potere (Now Wait for Last Year, 1966), Mr. Lars, sognatore d’armi (The Zap, 1967), Il cacciatore di androidi (noto anche come Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968), Ubik (1969).
Sono solo i titoli più rappresentativi di quel periodo, che dal 1962 al 1966 vide Dick impegnato sulla stesura di ben diciotto romanzi. Stupisce ancora oggi la capacità di sfornare, nel breve volgere di una manciata d’anni, una simile mole di capolavori, che raggiunse l’apice nel 1964, con la pubblicazione de I simulacri, La penultima verità, Noi marziani e Follia per sette clan e la composizione di Mr. Lars, sognatore d’armi, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Utopia, andata e ritorno (The Unteleported Man, pubblicato nel 1966) e Deus Irae (in collaborazione con Roger Zelazny, pubblicato poi nel 1976). Se c’è una prima data da segnare nella permanenza terrestre di Dick è proprio questa: l’autore stesso non mancherà di rilevare le straordinarie intuizioni che presero forma nelle sue opere di quegli anni, meravigliato dalla matrice gnostica che solo molti anni più tardi avrebbe abbracciato con convinzione.
La vita, però, sa essere crudele: malgrado gli sforzi (e, a ragion veduta, verrebbe da dire “malgrado anche i risultati”), l’attività di scrittore non gli regalò mai la tranquillità economica. Dick continuò a scrivere e a scrivere, giungendo nei periodi più duri a nutrirsi degli scarti della macellazione destinati ai cani, imparando a sostenere gli sguardi mortificanti del macellaio che naturalmente “aveva capito”. In quegli anni si susseguirono avvenimenti che lo segnarono nel profondo: la morte di Boucher e la successiva ma ravvicinata scomparsa del vescovo episcopaliano James A. Pike, per lungo tempo suo interlocutore in materia di fede e religione. L’abuso di amfetamine cominciò a manifestare segni deleteri con danni rilevanti alla sua salute, e una serie di esaurimenti nervosi sempre peggiori lo costrinsero a ripetuti soggiorni ospedalieri. Dopo la separazione da Anne, Dick non rimase solo a lungo. Nel 1966 si sposò per la quarta volta, con Nancy Hackett. Nel 1967 ebbero Isolde; nel 1968 Dick fu colpito da un attacco quasi mortale di pancreatite; nel 1970 divorziò di nuovo.
In seguito all’abbandono di Nancy, Dick sprofondò in uno stato di cupa disperazione. Mentre i suoi libri venivano abbracciati dalla controcultura americana, Dick aderiva alla Nuova Sinistra, ma evidentemente l’impegno non bastava a colmare quel baratro interiore originatosi da un semplice spazio bianco. La disgregazione del suo mondo andava avanti, aggredendo un pezzo dopo l’altro, strappando sempre nuovi spazi alla sua dimensione vitale. Nel tentativo di rimuovere questi dispiaceri, Dick s’incamminò lungo una discesa ripida, scandita dai sempre più frequenti viaggi allucinogeni e dall’abuso costante di alcol.

2.3 La penultima verità. Sulla scia di queste premesse, i Settanta non si aprirono nel modo migliore. Il 17 novembre 1971, la sua casa e i suoi archivi (custoditi in una cassaforte ignifuga da 350 Kg) andarono distrutti, forse per una bomba; Dick rimase sconvolto dall’episodio, ma la cosa che desta maggiore interesse nella vicenda è il fatto che la sua lista dei sospetti comprendesse il suo stesso nome. L’FBI aveva preso a sorvegliarlo, sottoponendolo al regime di restrizioni e soprusi che il Dipartimento di Stato infliggeva agli intellettuali progressisti. Sotto la presidenza di Nixon, Dick visse probabilmente il suo periodo più tormentato. Giunse anche a trasferirsi per qualche tempo a Vancouver, in Canada, ma per via del consumo di psicofarmaci e delle ristrettezze economiche, l’esperienza fu l’ennesimo fallimento. Per uscire dalla tossicodipendenza, allora, si decise finalmente a rivolgersi a una comunità di riabilitazione.
Nel 1972 riprese a scrivere e uscì Abramo Lincoln, Androide (scritto una decina d’anni prima, emblematico il titolo originale: We can build you). Due anni dopo fu la volta di un altro capolavoro: Scorrete lacrime, disse il poliziotto (Flow My Tears, the Policeman Said, 1974), libro meraviglioso e struggente che riprende in maniera innovativa i temi dell’ambiguità delle percezioni e del potere della droga, trasponendoli in un panorama urbano segnato da violenti conflitti e invaso dai media che anticipa cupamente il nostro mondo. È anche interessante notare come un elemento (anche se marginale) della trama è la morbosa relazione che lega un investigatore alla sua intraprendente gemella. La funzione giocata da questo libro nell’evoluzione dell’autore è evidente, segnando l’inizio di un processo che potremmo definire catartico, attraverso il quale Dick si sarebbe proposto di espiare attraverso la carta gli errori del vivere, affrontando di petto i propri blocchi emotivi.
A liberarlo da un altro carico dei suoi personalissimi tormenti giunse provvidenziale nel 1974 il caso Watergate, per altro anticipato con sorprendente lucidità proprio in uno dei romanzi di maggior rilievo di quel fatidico 1964: I Simulacri.
Una lettera Xerox ricevuta nel marzo dello stesso anno fu all’origine di un’esperienza mistica in cui Dick si convinse di aver assistito alla caduta del velo di Maya, alla rivelazione finale del Regno di Dio in Terra. La vista di Cristo e del suo corpo martoriato lo sconvolsero profondamente, com’è testimoniato dai numerosi frammenti di ipotesi e spiegazioni da lui formulate nei suoi appunti. Il 1974 è quindi la seconda data cruciale nel percorso terreno di Dick: lo scandalo Watergate, il completamento di Scorrete lacrime, disse il poliziotto che fu subito nominato per i tre premi più importanti del settore (Hugo, Nebula, Locus), la rivelazione mistica e, per concludere, l’incontro con il mondo del cinema. Fu proprio nell’agosto di quell’anno che il regista francese Jean-Pierre Gorin, già collaboratore di Jean-Luc Godard, gli commissionò una sceneggiatura basata su Ubik. All’epoca Dick viveva già a Santa Ana, sobborgo di Los Angeles in cui rimase fino alla fine dei suoi giorni, e il regista si recò personalmente a fargli visita. Le sue intenzioni erano delle più serie e convinte. Una simile congiuntura favorevole fornì forse l’illusione (se non la sicurezza del preludio) di un definitivo riscatto. Dick si gettò nell’impresa con entusiasmo neofita e in tre settimane portò a termine la bozza, anticipando di due mesi il termine della consegna. Il progetto poi naufragò a causa delle cattive condizioni di salute del regista, ma Dick ricevette immediatamente una nuova offerta: la Jaffe Associates gli proponeva l’acquisto di un’opzione sul romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? e lui la concesse.
Fu probabilmente quello il periodo più gratificante della sua vita, accanto alla quinta moglie (Tessa Busby, sposata nel 1973, da cui ebbe nello stesso anno l’ultimo figlio, l’unico maschio, Chris) e agli amici K.W. Jeter e Tim Powers, scrittori emergenti incontrati nel 1972. Le visioni cominciarono a farsi sempre più frequenti e Dick, per un certo periodo, credette di sperimentare contemporaneamente due piani di vita: uno aveva per sfondo la Roma imperiale del 70 d.C., l’altro era la California moderna. Una sovrapposizione temporale che a sua detta si protrasse per settimane. Ma le sue esperienze di distacco dal mondo reale sarebbero terminate solo il 17 novembre del 1980, esattamente nove anni dopo la distruzione dei suoi archivi. La mente plasma la realtà?

2.4 La vita al tempo di VALIS. Negli ultimi anni della sua vita, Dick giunse a liberarsi dall’ossessione delle droghe, di cui fornì un ritratto disincantato e finanche crudele nel cruciale Scrutare nel buio (A Scanner Darkly, 1977), dedicandosi in prima persona a combatterne la diffusione, specie tra i giovani. Ex ateo convinto, si convertì alla Chiesa episcopale, gli apparve una luce rosa e cominciò ad ascoltare criptici bollettini informativi da un satellite artificiale: quello che lui chiamò VALIS, Vast Active Living Intelligence System, un’entità dai caratteri semidivini mossa da ambigue finalità. Se non si convinse di essere il nuovo messia, era sicuro di avere almeno una linea privata con il quartier generale di Dio.
Scrisse sull’argomento delle sue rivelazioni un diario di milioni di parole, i cui frammenti compongono il testo più esoterico e personale della sua opera: L’Esegesi, una sorta di diario notturno disseminato di riflessioni rancorose, forzature teoriche e derive ora mistiche ora malinconiche, capace comunque di toccare nei suoi punti migliori vette di lucido pensiero. Le questioni metafisiche, religiose e teologiche sono al centro anche dei romanzi di quest’ultimo periodo (Valis, Divina Invasione e La trasmigrazione di Timothy Archer, ovvero VALIS, The Divine Invasion e The Transmigration of Timothy Archer), riuniti nella cosiddetta Trilogia di Valis (1982).
Sul finire dei Settanta Dick tornò a occuparsi di cinema. L’opzione della Jaffe portò a una prima sceneggiatura. Tuttavia, anche per via di un approccio poco ortodosso alla materia, lo script che Robert Jaffe derivò da Do Androids Dream of Electric Sheep? stravolgeva il tema dell’opera e riuscì a suscitare solo le ire dell’autore. Dick s’incontrò personalmente con Jaffe ed ebbe modo di discutere con lui i miglioramenti da apportare, ma poi fino alla fine del ’77 non si mosse più niente. Finché l’opzione cadde e fu rilevata da Hampton Fancher, con l’intercessione di Brian Kelly. Dick ne sarebbe rimasto all’oscuro fino al 1980.
Quando la produzione del film era ormai avviata, giunse finalmente in possesso di una riscrittura della sceneggiatura dello stesso Fancher e la condannò pubblicamente. Allora i produttori si decisero a coinvolgerlo marginalmente nella lavorazione, lasciandolo comunque estraneo alla realizzazione dell’adattamento. La riscrittura decisiva fu opera di David Peoples che mise in atto i numerosi suggerimenti di Ridley Scott, modificando la sceneggiatura di Fancher e gettando le basi concrete per Blade Runner. Dick lesse il copione nel febbraio del 1981 rimanendo molto colpito dal lavoro di Peoples, che meritò così al progetto la benedizione dell’autore. Le sue impressioni positive furono confermate dalla visione di alcune sequenze finite, nel dicembre di quello stesso anno. La proiezione di questi spezzoni è documentata da una preziosa foto in cui Dick appare sorridente al fianco di un Ridley Scott soddisfatto. È questa l’ultima immagine che ci resta di lui, il simulacro di un uomo finalmente sereno.

Dick non poté mai vedere l’opera completa. Morì di colpo apoplettico quattro mesi più tardi, all’età di cinquantatre anni, il 2 marzo del 1982, lasciando tre figli, quasi cinquanta romanzi tra editi e inediti e un’agguerrita schiera di ammiratori da ambo le parti dell’Oceano Atlantico.

L’hacienda dura consumando materiali, il cui trattamento varia a seconda che siano classificati come inerti o non inerti. Dei primi a consumarsi è l’utilità, esaurita la quale vengono gettati. I secondi devono essere assimilati ai primi: vien loro tolto il movimento spontaneo e assegnata un’utilità che si possa consumare. Tuttavia, a differenza degli inerti, tale utilità resta qualcosa di estraneo, non inerente, ma fittizio: ciò che dei materiali non inerti viene consumato, è il tempo durante il quale il movimento è sospeso. Essi rappresentano per l’hacienda una minaccia, poiché tale movimento, ancorché vi abdichino nella forma più radicale, rimane nelle loro facoltà: si tratta infatti di un’attitudine alla metamorfosi. Queste trasformazioni, che possono verificarsi senza avvisaglie e restano, per chi guardi dall’esterno, del tutto inavvertite, pur modificando intimamente la natura del materiale, fanno sì che il controllo che si esercita su di esso rimanga sempre precario.

Dal momento in cui ai materiali viene riconosciuta o conferita un’utilità, vengono definiti risorse; a quelli non inerti, denunciandone la peculiarità, l’hacienda dà il nome di risorse umane. Che siano per essa temibili è testimoniato dall’accortezza con cui se ne tiene al riparo nel modo più ingegnoso: l’intero suo corpo fisico e mistico è infatti rivestito di uno strato più o meno spesso di una forma specializzata di tali materiali, che si prestano quali sacerdoti e officianti del suo culto e custodi della sua ortodossia. Dispone poi, dove la prossimità è massima e quindi più elevato il rischio, di un apposito dipartimento, incaricato non solo di opporre uno spessore o meglio un filtro tra le due parti, il materiale non inerte e il corpo dell’hacienda, ma anche di disciplinare l’acquisto di nuovo materiale e la dismissione di quello in uso.

—F.Sollima, Fenomenologia dell’umiliazione, I, p.49

La recente lettura del romanzo di Ted Chiang, Il ciclo di vita degli oggetti software, mi ha sollecitato una serie di interrogativi su quanto sia preparato davvero l’uomo a confrontarsi in maniera profonda con la tecnologia più avanzata e, in particolare, con l’Intelligenza Artificiale.

Il progresso tecnologico non solo ha cambiato il percorso dell’evoluzione della specie umana, ma anche il nostro modo di relazionarci con quanto ci circonda, sia dal punto di vista pratico che in senso etico-filosofico, ed è stato talmente rapido che l’uomo si è trovato spesso costretto ad accettarlo e a prenderne parte come un dato di fatto.
L’avvento di macchine intelligenti (le cosiddette IA forti), tuttavia, costringerebbe a un esame ben più responsabile sul loro rapporto con l’essere umano, poiché sarebbe una rivoluzione che potrebbe minare il senso stesso del suo essere, della sua esistenza e dell’etica. Come dichiara il professore Giuseppe Longo in questa esaustiva disanima: “La crescente diffusione dei robot in tutti i settori della società ci obbliga a considerare il rapporto di convivenza uomo-macchina in termini inediti, che coinvolgono in primo luogo l’etica. Affrontare questi problemi è importante e urgente”.

La riflessione su queste problematiche non è soltanto materia per la fantascienza, ma ha coinvolto strettamente tanto la scienza che la filosofia, in particolare le neuroscienze, la neurofenomenologia e il cognitivismo, facendo riemergere, benché in una prospettiva inedita, i più classici dei quesiti filosofici, quali il rapporto mente-corpo e il senso ultimo dell’uomo stesso. Il predominio delle due correnti principali nella seconda metà del secolo scorso, funzionalismo e computazionalismo, oggi è oltrepassato a favore di tesi che si rifanno principalmente all’apporto del neuroscienziato Antonio Damasio e che rimarcano come il cervello non possa essere inteso quale struttura a sé né insieme di funzioni e algoritmi, bensì che esso “senza il corpo non può pensare”, intendendo per corpo non solo quello biologico individuale ma anche l’intero contesto spazio-temporale in cui è immerso.

Questa speculazione è fondamentale per cercare di rispondere alla domanda “Se i robot dovessero un giorno diventare intelligenti e sensibili (quasi) quanto gli umani, potremmo continuare a considerarli macchine?”, per citare di nuovo Longo. Interrogativo che potrebbe essere rovesciato menzionando il titolo di uno dei più celebri romanzi di Philip K. Dick, che Ridley Scott avrebbe sviluppato come base letteraria per il suo capolavoro, Blade RunnerMa gli androidi sognano pecore elettriche?

In primo luogo è necessario ricordare che l’uomo, per la sua intrinseca natura psico-emotiva, tende a investire quanto ha davanti di proiezioni emozionali e affettive, interpretando i segnali dell’interlocutore come sentimenti o risultati di una coscienza tipicamente umana, anche di fronte a una macchina che, per quanto evoluta, ripete una mera emulazione comportamentale elaborata in base agli input ricevuti e a uno schema inoculato inizialmente dall’uomo stesso – un termine utilizzato per definire tali robot, infatti, è anche replicanti, a sottolineare la loro natura di copia. Un simile tipo di intelligenza, artificiale appunto, non sarebbe in grado né di vera comprensione e consapevolezza, né di riproporre le peculiarità del pensiero umano, che spesso è tutt’altro che lineare ma segue percorsi contraddittori, irrazionali, creativi. Altro problema fondamentale sarebbe quello della moralità dell’automa, che anche in questo caso prende le mosse da uno spunto letterario, le Tre Leggi della Robotica declinate da Isaac Asimov, ma si connota di sottigliezze assai più complesse e delicate, come approfondito accuratamente da Colin Allen, filosofo e cognitivista americano, le cui linee guida teoriche sono riassunte in questo interessante articolo.
Il fatto che l’IA non sia identica all’essere umano, tuttavia, non elude il problema se ad essa, una volta diventata autonoma nel suo sviluppo evolutivo “bio-culturale”, debbano essere riconosciuti specifici diritti e doveri e una dignità paritaria a quella dell’uomo.

Una perplessità su queste ricerche è che prendono come punto di partenza il mondo odierno, così com’è, e supponendo l’IA forte un qualcosa di già concreto ed esistente; a mio avviso, invece, bisognerebbe analizzare il suo ruolo anche in rapporto a quello che sarà l’uomo del domani, quando appunto l’IA potrà essere davvero attuabile e realistica.
Speculando in ottica futura, la società umana convivrebbe non solo con l’IA, ma, ad esempio, con il postumano − essere umano altamente ibridato con la tecnologia, talora fino al punto da essere assai simile a una macchina −, con cloni dell’uomo stesso, avrebbe accesso al mind uploading e a tecniche di prolungamento indefinito della vita.
In uno scenario analogo l’umanità potrebbe ancora considerarsi tale?
Ecco forse che, oltre alla riflessione filosofica sul senso dell’uomo e alla ricerca di un’enunciazione della roboetica, è altrettanto importante la definizione di un nuovo vocabolario e di un nuovo pensiero, che sia non solo storico ma anche evolutivo, e soprattutto sappia andare oltre il dualismo tra ciò che è umano e ciò che non lo è, superando finalmente l’antropocentrismo.

Il confronto con la macchina è stato in grado sia di riavvicinare discipline eterogenee, quali scienza e filosofia, sia di ridare vigore al processo di autoanalisi dell’uomo.
Tutte le domande e gli argomenti che ne scaturiscono, che siano suggeriti dalla fantascienza o dai risultati del progresso, sono però ancora da analizzare con attenzione in tutti i loro possibili risvolti. Sostanzialmente, ad oggi, una risposta condivisa non è stata ancora raggiunta.

Un altro quesito basilare, tuttavia, che sta a monte di tutte queste riflessioni, finora non ha ricevuto che risposte laconiche o nulle: fino a che punto l’hybris dell’uomo può spingersi nello scavalcare e nel modificare le leggi della Natura? Egli ha il diritto di arrogarsi il ruolo di novello demiurgo e costruire macchine senzienti a lui simili o addirittura esseri viventi?

L’hacienda è un’organizzazione il cui scopo sembra essere la pura durata. Essa si prefigge scopi apparenti, come il profitto, o il prodotto, o una relazione dei due. Per ingenuità si sono talvolta scambiati tali scopi apparenti per reali e persino assoluti, al pari di divinità, il che testimonia l’efficacia della mitologia con cui l’hacienda protegge la propria provvidenziale mancanza di orientamento. E’ chiaro infatti che qualunque scopo comporterebbe il potenziale venir meno della durata. Come qualunque chiesa, l’hacienda istituisce dogmi, richiede devozione e pratica un culto; ma nulla le sarebbe d’impaccio quanto l’epifania dei suoi dèi.

—F.Sollima, Fenomenologia dell’umiliazione, I, p.46

Dopo quasi venticinque anni dalla pubblicazione, e in occasione della morte del più noto conterraneo Luigi De Rossi, le terze pagine dei principali quotidiani sono tornate a occuparsi dell’opera di Fosco Sollima, bizzarra figura di autodidatta ramingo tra le fabbriche intorno al medio corso del Ticino, tra Novara e Magenta. Non ci si attarderà qui sui particolari biografici, né sulla scarsa fortuna editoriale: per tali argomenti si può far riferimento alle fonti indicate sopra, che nella trattazione hanno sfoggiato il consueto gusto per l’oleografia e il melodramma: ed ecco la storia del popolano ruvido e scontroso che suda nottetempo sui libri dopo le ore trascorse al montaggio di rubinetti o nella lucidatura di maniglie, scrive e riscrive le carte che raccoglierà poi nel ponderoso trattato che sarà l’unica sua opera edita, viene deriso tanto dai colleghi di lavoro, che finiscono per isolarlo, quanto dai pochi letterati che si prendono la briga di rispondere alle sue missive impacciate o alle rare, titubanti, chiamate per telefono.

Che dire invece di questo ingombrante saggio in più volumi che infine il Sollima pubblicò a sue spese con l’altrettanto ingombrante titolo Fenomenologia dell’umiliazione? Che rappresenta anzitutto un gesto: il gesto con cui l’autore mette davanti a sé la propria personale allucinazione e la descrive con lucidità. Il senso di insignificanza, si direbbe quasi inesistenza, sperimentato nella sua vita e nella sua persona, non viene interpretato alla luce di categorie come la giustizia o l’ingiustizia, egli non parla di sfruttamento e neppure di classi sociali, non rivendica alcunché, non confida in alcuna forma di lotta o rivoluzione: e questo è tanto più rilevante, se si osserva che la materia dei primi tre volumi fu stesa tra l’autunno del ’69 e il ’72. Piuttosto, percepisce in questo affronto continuo, in questa oppressione, il respiro di un immenso meccanismo senziente, con una vita propria, che egli analizza in dettaglio nei diversi ambiti dove meglio e più in profondità ritiene che si avverta e manifesti: le aziende (voll. I e II), l’editoria (III), la scuola (IV), le religioni (V).

Scorrendo le pagine dei primi due volumi, di cui si intende qui presentare una succinta antologia con cadenza settimanale, l’impressione è quella di una follia tanto innocua quanto pervasiva: il mondo aziendale è mostrato nelle forme distorte di una istituzione religiosa, atea e dogmatica allo stesso tempo, che teme i propri dipendenti e programma intenzionalmente la loro quotidiana umiliazione. In questa luce persecutoria vengono reinterpretate innocenti espressioni del lessico aziendale, per esempio relative ai colloqui di selezione; e da certe acrobazie etimologiche di dubbio fondamento vengono tratte conclusioni di portata cosmica. In sostanza, il trattato appare un reperto fossile di quell’era favoleggiata in cui spiriti ed ectoplasmi si mostravano in piena evidenza ai vivi, testimonianza di un’ingenuità fuori del comune e forse patologica, e come tale si intende presentarlo. Quanto ai lettori, dotati di maggior discernimento e di quel buon senso che tiene ben distinte teoria e pratica, confinando la prima al diletto e al tempo libero e della seconda facendo l’uso più appropriato per la conservazione dei posti di lavoro e delle amicizie, sapranno certo dare a questi brevi estratti il peso che meritano: un esercizio dell’immaginazione.

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