La lavorazione di Blade Runner, come racconta dettagliatamente Paul M. Sammon nella sua storia del film Future Noir: The Making of Blade Runner (edito in Italia da Fanucci come Blade Runner: Storia di un Mito, ormai purtroppo finito fuori catalogo), fu complessa e travagliata. A partire dall’acquisto dei diritti cinematografici di Do Androids Dream of Electric Sheep? (il romanzo di Philip K. Dick del 1968 da cui tutto ebbe inizio, da noi tradotto come Il cacciatore di androidi) da parte di Hampton Fancher, il copione passò attraverso diverse fasi di scrittura e riscrittura. Il risultato finale del 1982 è l’esito di un lungo processo di elaborazione che vide contribuire in maniera decisiva il summenzionato Fancher e Ridley Scott (sua l’idea di sviluppare l’estetica noir futuristica del film a partire da Nighthawks di Edward Hopper e dal fumetto The Long Tomorrow di Dan O’Bannon e Moebius), David Webb Peoples (arruolato per sistemare i dialoghi e ideatore del termine “replicante”), Syd Mead (artista concettuale tra i più influenti al mondo) e Lawrence G. Paull (autore delle scenografie), Douglas Trumbull (già artefice degli effetti speciali per 2001: Odissea nello Spazio, Incontri ravvicinati del terzo tipo e Star Trek, recentemente tornato all’opera nell’ambizioso The Tree of Life di Terence Malick), Jordan Cronenweth (votato dai suoi colleghi come uno dei dieci direttori della fotografia più influenti di tutti i tempi) e Vangelis (autore della colonna sonora del film).

Un team di questa levatura poteva produrre solo un disastro memorabile o una pietra miliare. Per fortuna ci è andata bene e oggi, malgrado gli stenti della prima distribuzione nel circuito delle sale, Blade Runner è riconosciuto pressoché all’unanimità per quel capolavoro che è, dentro e fuori dal genere. Ma prima di arrivare alla pellicola, le difficoltà produttive di cui facevamo menzione si sono riflesse nella lunga sequenza di sceneggiature preparate per il film. Mechanismo, Dangerous Days, Android: a partire dalla ricerca del titolo, non fu un lavoro semplice. Alla fine la produzione optò per Blade Runner, rilevandone i diritti da un semisconosciuto romanzo di Alan E. Nourse apparso da noi come Medicorriere e da un soggetto originale di William S. Burroughs, entrambi senza punti di contatto con la pellicola che Ridley Scott si apprestava a girare.

A quale punto della lavorazione si decise di cambiare l’ambientazione del romanzo ispiratore di Dick non è dato saperlo. Perché è vero che ormai Los Angeles, Novembre 2019 è di diritto una componente imprescindibile del nostro immaginario sul futuro, un set di coordinate spazio-temporali che fa parte del bagaglio culturale di ognuno di noi, ma è altrettanto vero che Il cacciatore di androidi era ambientato in un’altra città californiana, con ben altra storia alle spalle rispetto alla città degli angeli: San Francisco. Di sicuro fin dall’inizio Scott aveva in mente uno scenario urbano verticale, più simile a New York che a Los Angeles. Paradossalmente, l’architettura della Bay Area si sarebbe prestata perfino meglio rispetto allo sprawl di L.A. per gli sfondi che Scott aveva in mente, ma forse fu lo scenario da nebulosa infernale, assediata dalle raffinerie di Torrance ed El Segundo, a innescare l’associazione con i polizieschi di Raymond Chandler verso cui la trama del film è in forte debito (Rick Deckard è una sorta di Philip Marlowe del futuro, e l’olio nero è un elemento d’ambiente nelle sue storie, a partire da Il grande sonno) e ad avere così la meglio, spostando il baricentro geografico del film verso la California del sud.

Eppure… San Francisco è una città straordinaria, set ideale per una quantità innumerevole di storie: da Jack London a Cory Doctorow, passando per Jack London, Fritz Leiber, Jack Kerouac, William Gibson e tanti altri. Ho provato a renderne conto, limitandomi a una manciata di titoli di spicco, parlandone a proposito di Little Brother sulle pagine di Next Station. E allora: come sarebbe stato Blade Runner se la produzione avesse deciso di mantenere l’ambientazione originaria prescelta da Dick?

Se l’è chiesto come noi Britta Gustafson, un’appassionata di fotografia, paesaggi urbani, arte e matematica, che ha anche cercato di dare una risposta allestendo un tour virtuale di questo Blade Runner alternativo, tracciando un parallelo tra il romanzo di Dick e il film di Scott e soprattutto tra i rispettivi luoghi. Il risultato è su Flickr (ne siamo venuti a conoscenza attraverso io9) ed è davvero degno di nota.

Buona escursione!

Westin St. Francis Hotel at night, di Kumasawa

Opening Night Simulcast, di pbo31.

Fake Eagles, di freeside510.

Pi Equals, via xkcd.com.

Oggi cade una ricorrenza che allieterà la giornata di matematici e appassionati: secondo l’usanza introdotta dal fisico americano Larry Shaw, che per primo la celebrò nel 1988 con una sorta di flash mob presso i locali dell’Exploratorium di San Francisco, il 14 marzo (3/14 secondo la notazione in uso nel mondo anglosassone per le date) è infatti il giorno del pi greco. Per la maggior parte di noi, il pi greco è quell’astrusità matematica che rientra nel calcolo delle formule principali riguardanti le figure circolari: la circonferenza di un cerchio è pari a pi greco volte il diametro (ovvero 2πr), l’area di un cerchio misura pi greco volte il quadrato del raggio (πr²), la superficie esterna di una sfera di raggio r vale 4πr² e il suo volume 4/3 πr³. Ci hanno insegnato che il pi greco è un numero irrazionale, ovvero composto da una sequenza infinita di cifre decimali dopo la virgola, ma per comodità nei calcoli quotidiani si può approssimare a 3,14. Da cui la scelta di questa giornata.

Non tutti sanno che il pi greco è così denominato dall’iniziale della parola greca περιμετροσ (perimetros) e che compare un po’ dovunque, in matematica come in natura: ritroviamo il pi greco nel principio di indeterminazione di Heisenberg, nella costante cosmologica di Einstein, nel valore della permeabilità magnetica del vuoto; ma anche nella geomorfologia, come limite, già osservato dallo stesso Einstein, a cui in genere tende il rapporto tra la lunghezza di un fiume e la distanza della sua sorgente dalla foce, assicurando il percorso più “comodo” e minimizzando l’effetto dell’erosione. Siamo praticamente circondati da un mondo fatto a misura di pi greco.

È ormai trascorso quasi un quarto di secolo da quando per la prima volta, con una invidiabile intuizione situazionista, Larry Shaw radunò il personale e i visitatori del museo in cui lavorava, organizzando una marcia in tondo attorno a uno dei padiglioni e ristorando poi i presenti con torte alle mele decorate dallo sviluppo decimale del pi greco; ma di anno in anno le celebrazioni della data di sono moltiplicate, al punto da renderla una piccola istituzione. Fatto singolare, il 14 marzo è anche l’anniversario della nascita di Albert Einstein, figura-chiave della scienza del XX secolo assurta a icona pop per eccellenza.

Due anni fa Google ricordava la ricorrenza con uno dei suoi doodle più fantasiosi.

Noi vi rimandiamo a un articolo più circostanziato apparso cinque anni fa su Fantascienza.com e cogliamo l’occasione per ricordare in questa data il premio Nobel Wisława Szymborska, poetessa polacca scomparsa lo scorso 1° febbraio, autrice tra le sue liriche anche di un poemetto dedicato alla più straordinaria delle costanti matematiche. Tratto dalla raccolta Grandi numeri (Wielka Liczba) del 1976, quello che segue è Sul pi greco nella traduzione di Alessandra Czeczott:

Degno di meraviglia è il numero Pi greco
tre virgola uno quattro uno.
Le sue cifre seguenti sono ancora tutte iniziali,
cinque nove due, perchè non ha mai fine.
Non si fa abbracciare sei cinque tre cinque con lo sguardo,
otto nove con il calcolo,
sette nove con l’immaginazione,
e neppure tre due tre otto per scherzo, o per paragone
quattro sei con qualsiasi cosa
due sei quattro tre al mondo.
Il più lungo serpente terrestre dopo una dozzina di metri s’interrompe.
Così pure, anche se un po’ più tardi, fanno i serpenti delle favole.
La fila delle cifre che compongono il numero Pi
non si ferma al margine del foglio,
riesce a proseguire sul tavolo, nell’aria,
su per il muro, il ramo, il nido, le nuvole, diritto nel cielo,
per tutto il cielo atmosferico e stratosferico.
Oh come è corta, quasi quanto quella di un topo, la coda della cometa!
Quanto è debole il raggio di una stella, che s’incurva nello spazio!
Ed ecco invece due tre quindici trecento diciannove
il mio numero di telefono il tuo numero di camicia
l’anno mille novecento settanta tre sesto piano
numero di abitanti sessanta cinque centesimi
giro dei fianchi due dita una sciarada e una cifra,
in cui vola vola e canta, mio usignolo
e si prega di mantenere la calma,
e così il cielo e la terra passeranno,
ma il Pi greco no, quello no,
lui sempre col suo bravo ancora cinque,
un non qualsiasi otto,
un non ultimo sette,
stimolando, oh sì, stimolando la pigra eternità
a durare.

Poesia e matematica, fuse in una sintesi mirabile. L’istantanea più efficace della meraviglia che si accompagna da sempre all’immensità del 3,14159 26535 89793 23846 26433 83279 50288 41971 69399 37510 58209 74944 592…

Il 2 marzo 1982 Philip K. Dick moriva per le conseguenze di un collasso cardiaco a soli cinquantatré anni. La sua vita, segnata dalle difficoltà economiche, dalle delusioni artistiche e da uno stato quasi costante di paranoia, è emblematica per molti versi della vita dello scrittore di fantascienza. Per ironia della sorte, i problemi incontrati nel farsi considerare dalla critica si sono dileguati con la scomparsa dell’autore. Pochi altri scrittori hanno conosciuto il suo successo postumo: dapprima grazie al forte, persistente radicamento di Blade Runner nel nostro immaginario, poi  con la stagione ininterrotta della trasposizione cinematografica dei suoi lavori, in cui le major hollywoodiane sembrano aver scoperto un’inesauribile miniera d’oro, e infine con l’inclusione nella prestigiosa Library of America.

Noi di HyperNext abbiamo deciso di ricordarlo a modo nostro, ripercorrendone la vita, le opere… e l’eterno ciclo della resurrezione artificiale. A partire da oggi e per tre settimane, ogni venerdì proporrò una parte del mio articolo Philip K. Dick Androide: il sogno del replicante, originariamente apparso sull’Iterazione 04 di NeXT, nel 2006, e rivisitato per l’occasione.

1. Un grande scrittore del XXI secolo. Fanta-filosofo dell’era quantistica”, così il profeta dell’LSD e della contestazione Timothy Leary ha osato definire Dick. Sentendolo, probabilmente Dick sarebbe esploso in una risata, lui che in vita pubblicò 35 romanzi e 120 racconti senza raggiungere mai la fatidica soglia delle centomila copie vendute. C’era sì lo zoccolo duro dei lettori innamorati del suo mondo narrativo, adepti di un culto esoterico di cui Dick era sacerdote e messia, ma le frange più conservatrici del genere la sua opera non la consideravano nemmeno come prodotto di fantascienza. Afflitto da ciò, Dick arrivò ad annotare su un taccuino queste parole, esplicative del suo pensiero sull’argomento: “scrivere fantascienza è un atto di autodistruzione”.
Il destino, anche con lui, ha trovato il modo per essere beffardo: si è dovuta attendere la sua morte per assistere alla sua riscoperta. Oggi, grazie anche al successo di pellicole come Blade Runner (Ridley Scott, 1982; seguito dieci anni dopo dal Director’s Cut, più cupo e vicino alla sensibilità dickiana), Atto di forza (Total Recall, Paul Verhoeven, 1990) e Minority Report (Steven Spielberg, 2002), Dick è un autore che con le sue ristampe vende milioni di copie, assurto da protagonista di un culto un po’ marginale e guru della sottocultura degli anni ’70 a idolo della critica e del grande pubblico. È tempo di sdoganamenti, dopotutto, e ormai si direbbe che non sia rimasto più nessuno che non abbia letto qualcosa di lui (più che di suo). La sua atipicità, degenerata in autentica unicità, veniva vista da noi ancora negli anni Novanta come un ostacolo alla sua comprensione e fortuna. Pregiudizi degli addetti ai lavori, verrebbe da dire, viste come sono andate poi le cose…

2. Il mondo che Dick creò. Il 16 dicembre 1928, a Chicago, i bambini di Dorothy Kindred Dick nacquero prematuri di sei settimane. Il 26 gennaio Jane morì. La colpa della sua morte fu attribuita alla madre, che più volte si rifiutò di cercare un adeguato aiuto medico, sottovalutando la gravità delle condizioni della neonata. Phil, invece, sopravvisse. La difficoltà nei suoi rapporti familiari ha forse le sue radici in questo dramma, fatto sta che Dick avrebbe dipinto sempre sua madre come una donna fredda e una figura distante. La piccola Jane fu sepolta in Colorado, in una tomba preparata con due targhette. La prima recava la classica scritta: “Jane K. Dick, 1928-1929”. La seconda era la placca destinata a suo fratello e ancora incompleta: “Philip K. Dick, 1928- ”. Quello spazio vuoto dopo il trattino, insieme all’idea colpevolizzante di essere sopravvissuto alla gemella, avrebbe ossessionato Dick per il resto della vita. A un certo punto, Dick sarebbe addirittura giunto a dichiarare di aver mantenuto sempre, per tutta la durata della sua esistenza, un legame spirituale con Jane.
Approdato in California nel 1930, in seguito al divorzio dei genitori arrivò a Washington DC due anni più tardi insieme alla madre. Nel 1940 fece ritorno a Berkeley, e da allora la sua vita si sarebbe snodata fino alla fine nel Golden State.
A partire dai 14 anni e per i successivi trenta, Dick fu in analisi presso tutta una schiera di psichiatri, delle scuole di pensiero più disparate; inizialmente per curare la sua agorafobia, poi per tutta una serie di altri disturbi psicologici. Solitario, schivo e introspettivo, rivelò fin da bambino una certa problematicità nei rapporti umani. Odiava lo sport, soffriva di ansia e tachicardia, dubitava degli altri e di se stesso. Negli anni giovanili di Berkeley, la culla della controcultura americana e della contestazione, Dick si avvicinò al movimento studentesco e si oppose con una certa passione all’intervento militare in Corea. Per essersi rifiutato di ottemperare agli obblighi di leva, fu costretto a interrompere gli studi. Per sopravvivere sperimentò allora tutta una serie di lavoretti: da disc-jockey esperto di musica classica in una radio di San Mateo a commesso in un negozio di dischi. Tuttavia non interruppe mai i suoi studi: appassionato di letteratura, storia e filosofia, s’impegnò a fondo da autodidatta frenetico, curioso ed entusiasta. Si sposò per la prima volta poco più che ventenne con la prima ragazza della sua vita, Janet Marlin: una sorta di ricompensa, narrano alcuni biografi, per aver ricevuto finalmente la tanto sospirata prova di non essere omosessuale. Non sarebbe durata a lungo.

2.1 I ruggenti anni Cinquanta. Nel 1950 Dick divorziò e si risposò con Kleo Apostolides, una militante comunista di origini greche. Fu proprio in quegli anni, mentre Richard Nixon saliva al soglio della vicepresidenza per Eisenhower, dopo essersi messo in (pessima) luce come zelante membro della Commissione di repressione delle attività antiamericane, che Dick tentò per la prima volta la via della scrittura. Alla fantascienza Dick si avvicinò presto, ma prima di cominciare a scriverne dovettero passare diversi anni: la folgorazione giunse dopo aver seguito un corso di Anthony Boucher, stimato autore e critico di rilievo degli anni Quaranta e Cinquanta.
La fantascienza dell’epoca non aveva perso ancora i suoi connotati più ingenui. In quegli anni Heinlein, Asimov e Clarke andavano a guadagnarsi il ruolo di stelle riconosciute nel firmamento della Golden Age e sarebbero presto emersi i nomi di Leiber, Bester, Bradbury, Sheckley, Kornbluth e Pohl, Brown e Matheson, ma l’immagine del genere restava legata a poco plausibili avventure di eroi imbattibili sullo sfondo esotico di improbabili scenari alieni. Appassionato lettore di H.P. Lovecraft e Alfred E. van Vogt, Philip K. Dick preparò la sua personale risposta chiudendosi in casa, ascoltando musica classica, leggendo con metodo e ossessione e scrivendo compulsivamente a macchina. Si stima che tra il ’51 e il ’55 portò a termine quattro romanzi e sessantadue racconti: per reggere il ritmo, si rivolse all’ausilio chimico delle amfetamine. Ne assumeva in quantità massicce e se questa mossa lo ripagò all’inizio con un’enorme prolificità, avrebbe avuto alla lunga gravi conseguenze per la sua salute, contribuendo inoltre a minare la stabilità della sua personalità. Eppure Dick considerò sempre l’assunzione delle droghe come una risposta pragmatica ai problemi che lo affliggevano: senza, non sarebbe arrivato a scrivere le sessanta pagine al giorno che in certi periodi segnavano il ritmo della sua produzione.
Soprattutto nei primi anni Cinquanta, la produzione di storie brevi fu intensissima. Il primo racconto, l’ormai mitico “Ora tocca al wub”, lo vendette nel 1954 proprio alla rivista di cui Boucher era caporedattore, Planet Stories. Del periodo sono anche piccoli gioielli come “Impostore” e “Modello due” (1953), “Squadra riparazioni” e “La cosa-padre” (1954), “Autofac” e “Foster, sei morto!” (1955), “Rapporto di minoranza” (1956). Il primo romanzo gli fu pubblicato nel 1955: si trattava de Il disco di fiamma (conosciuto anche come Lotteria dello spazio, Solar Lottery). La sua produzione fu fin dagli esordi tematicamente variegata, come se Dick volesse dire la sua in tutti i mercati disponibili per il genere, parlando alle sue diverse anime, al punto che lo stesso Boucher giunse a definirlo “un abile trasformista”. Le sue letture (Camus, Kafka, Pound, Joyce) ebbero in quegli anni un grande influsso sulla sua crescita letteraria: in tutte le opere di questo primo periodo è possibile individuare istanze tipiche dell’esistenzialismo, reinterpretate alla luce della personale sensibilità dickiana. Così, alle domande classiche sul senso della vita e il ruolo dell’uomo nel mondo, nella storia e nella società, Dick finì per aggiungere un altro importante interrogativo: “ma noi siamo davvero chi crediamo di essere?”. Questo tema diventerà uno dei pilastri portanti della sua opera, sviscerato sotto ogni possibile aspetto.
Anche la politica rivestì un ruolo di particolare importanza nella sua crescita artistica, tanto che Dick indisse una vera e propria crociata contro Richard Nixon, già braccio destro del famigerato senatore McCarthy. “Tricky Dick”, Dick il vizioso come veniva soprannominato il senatore repubblicano, assumeva agli occhi di PKD i tratti del potenziale dittatore reazionario, del nemico terribile, dell’incarnazione del male assoluto. E la sua ombra aleggia su molte figure letterarie di oppressori politici, a partire dalla figura marginale di Ernest T. Saunders, “il blando, semplice candidato dell’estremistico Partito Nazionalista” che diventa Presidente del Governo Federale nell’acerbo ma importante Il mondo che Jones creò (The World Jones Made, 1954).
D’altro canto l’incertezza della realtà, la paranoia, il rischio della manipolazione si fondono in una vocazione apocalittica sincera e ispirata, come dimostra il primo capolavoro dato alle stampe da Dick: L’uomo dei giochi a premio (noto anche come Tempo fuori luogo o Tempo fuor di sesto, Time Out of Joint, 1959), che nel 1998 avrebbe ispirato il regista Peter Weir, lo sceneggiatore Andrew Niccol e l’istrionico Jim Carrey per il sorprendente The Truman Show.

2.2 La stagione della contestazione. In cerca di tranquillità dopo i frenetici anni di Berkeley, Dick si trasferì a Point Reyes Station, nella contea di Marin, cinquanta chilometri a nord di San Francisco. Le sue opere cominciarono a rispecchiare i travagliati rapporti familiari con la sua terza moglie, Anne Williams Rubenstein. Vedova del poeta Rubenstein, Anne era una donna colta e dalla forte volontà, già madre di tre bambine quando sposò Dick nel 1958. Colto da improvvisa passione, lo scrittore aveva lasciato d’impulso Kleo e si era legato in matrimonio con Anne. Da lei ebbe la sua prima figlia, Laura Archer. Ma il loro rapporto era tanto stimolante quanto frustrante: se da un lato Anne spinse Philip Dick a esplorare strade diverse dai sentieri a lui familiari della fantascienza, la risposta negativa degli editori alle sue ambizioni mainstream furono per lui un colpo insostenibile. Nella sua paranoia, Dick si convinse progressivamente che la moglie avesse già assassinato il suo primo marito e ora si accingesse a fare lo stesso con lui. Così si separò da lei per trasferirsi a San Francisco sul finire di un anno, come vedremo, cruciale: il 1964.
Dal 1962 in poi Dick riuscì a dedicarsi all’attività di scrittore a tempo pieno. Da classico freelance writer, Dick produceva con un ritmo intensissimo. Specialmente negli anni Sessanta, come dimostra la sua bibliografia: non più racconti (la cui produzione si dirada drasticamente), ma romanzi, a partire da  La Svastica sul Sole (noto anche come L’uomo nell’alto castello, The Man in the High Castle, 1962), che guadagnò all’autore il suo unico premio Hugo; seguirono nello stesso periodo I giocatori di Titano (The Game-Players of Titan, 1963), I simulacri (The Simulacra, 1964), La penultima verità (The Penultimate Truth, 1964), Noi marziani (Martian Time-Slip, 1964), Follia per sette clan (Clans of the Alphane Moon, 1964), Le tre stimmate di Palmer Eldritch (The Three Stigmata of Palmer Eldritch, 1965), Cronache del dopobomba (Dr. Bloodmoney, or How We Got Along After the Bomb, 1965), Illusione di potere (Now Wait for Last Year, 1966), Mr. Lars, sognatore d’armi (The Zap, 1967), Il cacciatore di androidi (noto anche come Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968), Ubik (1969).
Sono solo i titoli più rappresentativi di quel periodo, che dal 1962 al 1966 vide Dick impegnato sulla stesura di ben diciotto romanzi. Stupisce ancora oggi la capacità di sfornare, nel breve volgere di una manciata d’anni, una simile mole di capolavori, che raggiunse l’apice nel 1964, con la pubblicazione de I simulacri, La penultima verità, Noi marziani e Follia per sette clan e la composizione di Mr. Lars, sognatore d’armi, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Utopia, andata e ritorno (The Unteleported Man, pubblicato nel 1966) e Deus Irae (in collaborazione con Roger Zelazny, pubblicato poi nel 1976). Se c’è una prima data da segnare nella permanenza terrestre di Dick è proprio questa: l’autore stesso non mancherà di rilevare le straordinarie intuizioni che presero forma nelle sue opere di quegli anni, meravigliato dalla matrice gnostica che solo molti anni più tardi avrebbe abbracciato con convinzione.
La vita, però, sa essere crudele: malgrado gli sforzi (e, a ragion veduta, verrebbe da dire “malgrado anche i risultati”), l’attività di scrittore non gli regalò mai la tranquillità economica. Dick continuò a scrivere e a scrivere, giungendo nei periodi più duri a nutrirsi degli scarti della macellazione destinati ai cani, imparando a sostenere gli sguardi mortificanti del macellaio che naturalmente “aveva capito”. In quegli anni si susseguirono avvenimenti che lo segnarono nel profondo: la morte di Boucher e la successiva ma ravvicinata scomparsa del vescovo episcopaliano James A. Pike, per lungo tempo suo interlocutore in materia di fede e religione. L’abuso di amfetamine cominciò a manifestare segni deleteri con danni rilevanti alla sua salute, e una serie di esaurimenti nervosi sempre peggiori lo costrinsero a ripetuti soggiorni ospedalieri. Dopo la separazione da Anne, Dick non rimase solo a lungo. Nel 1966 si sposò per la quarta volta, con Nancy Hackett. Nel 1967 ebbero Isolde; nel 1968 Dick fu colpito da un attacco quasi mortale di pancreatite; nel 1970 divorziò di nuovo.
In seguito all’abbandono di Nancy, Dick sprofondò in uno stato di cupa disperazione. Mentre i suoi libri venivano abbracciati dalla controcultura americana, Dick aderiva alla Nuova Sinistra, ma evidentemente l’impegno non bastava a colmare quel baratro interiore originatosi da un semplice spazio bianco. La disgregazione del suo mondo andava avanti, aggredendo un pezzo dopo l’altro, strappando sempre nuovi spazi alla sua dimensione vitale. Nel tentativo di rimuovere questi dispiaceri, Dick s’incamminò lungo una discesa ripida, scandita dai sempre più frequenti viaggi allucinogeni e dall’abuso costante di alcol.

2.3 La penultima verità. Sulla scia di queste premesse, i Settanta non si aprirono nel modo migliore. Il 17 novembre 1971, la sua casa e i suoi archivi (custoditi in una cassaforte ignifuga da 350 Kg) andarono distrutti, forse per una bomba; Dick rimase sconvolto dall’episodio, ma la cosa che desta maggiore interesse nella vicenda è il fatto che la sua lista dei sospetti comprendesse il suo stesso nome. L’FBI aveva preso a sorvegliarlo, sottoponendolo al regime di restrizioni e soprusi che il Dipartimento di Stato infliggeva agli intellettuali progressisti. Sotto la presidenza di Nixon, Dick visse probabilmente il suo periodo più tormentato. Giunse anche a trasferirsi per qualche tempo a Vancouver, in Canada, ma per via del consumo di psicofarmaci e delle ristrettezze economiche, l’esperienza fu l’ennesimo fallimento. Per uscire dalla tossicodipendenza, allora, si decise finalmente a rivolgersi a una comunità di riabilitazione.
Nel 1972 riprese a scrivere e uscì Abramo Lincoln, Androide (scritto una decina d’anni prima, emblematico il titolo originale: We can build you). Due anni dopo fu la volta di un altro capolavoro: Scorrete lacrime, disse il poliziotto (Flow My Tears, the Policeman Said, 1974), libro meraviglioso e struggente che riprende in maniera innovativa i temi dell’ambiguità delle percezioni e del potere della droga, trasponendoli in un panorama urbano segnato da violenti conflitti e invaso dai media che anticipa cupamente il nostro mondo. È anche interessante notare come un elemento (anche se marginale) della trama è la morbosa relazione che lega un investigatore alla sua intraprendente gemella. La funzione giocata da questo libro nell’evoluzione dell’autore è evidente, segnando l’inizio di un processo che potremmo definire catartico, attraverso il quale Dick si sarebbe proposto di espiare attraverso la carta gli errori del vivere, affrontando di petto i propri blocchi emotivi.
A liberarlo da un altro carico dei suoi personalissimi tormenti giunse provvidenziale nel 1974 il caso Watergate, per altro anticipato con sorprendente lucidità proprio in uno dei romanzi di maggior rilievo di quel fatidico 1964: I Simulacri.
Una lettera Xerox ricevuta nel marzo dello stesso anno fu all’origine di un’esperienza mistica in cui Dick si convinse di aver assistito alla caduta del velo di Maya, alla rivelazione finale del Regno di Dio in Terra. La vista di Cristo e del suo corpo martoriato lo sconvolsero profondamente, com’è testimoniato dai numerosi frammenti di ipotesi e spiegazioni da lui formulate nei suoi appunti. Il 1974 è quindi la seconda data cruciale nel percorso terreno di Dick: lo scandalo Watergate, il completamento di Scorrete lacrime, disse il poliziotto che fu subito nominato per i tre premi più importanti del settore (Hugo, Nebula, Locus), la rivelazione mistica e, per concludere, l’incontro con il mondo del cinema. Fu proprio nell’agosto di quell’anno che il regista francese Jean-Pierre Gorin, già collaboratore di Jean-Luc Godard, gli commissionò una sceneggiatura basata su Ubik. All’epoca Dick viveva già a Santa Ana, sobborgo di Los Angeles in cui rimase fino alla fine dei suoi giorni, e il regista si recò personalmente a fargli visita. Le sue intenzioni erano delle più serie e convinte. Una simile congiuntura favorevole fornì forse l’illusione (se non la sicurezza del preludio) di un definitivo riscatto. Dick si gettò nell’impresa con entusiasmo neofita e in tre settimane portò a termine la bozza, anticipando di due mesi il termine della consegna. Il progetto poi naufragò a causa delle cattive condizioni di salute del regista, ma Dick ricevette immediatamente una nuova offerta: la Jaffe Associates gli proponeva l’acquisto di un’opzione sul romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? e lui la concesse.
Fu probabilmente quello il periodo più gratificante della sua vita, accanto alla quinta moglie (Tessa Busby, sposata nel 1973, da cui ebbe nello stesso anno l’ultimo figlio, l’unico maschio, Chris) e agli amici K.W. Jeter e Tim Powers, scrittori emergenti incontrati nel 1972. Le visioni cominciarono a farsi sempre più frequenti e Dick, per un certo periodo, credette di sperimentare contemporaneamente due piani di vita: uno aveva per sfondo la Roma imperiale del 70 d.C., l’altro era la California moderna. Una sovrapposizione temporale che a sua detta si protrasse per settimane. Ma le sue esperienze di distacco dal mondo reale sarebbero terminate solo il 17 novembre del 1980, esattamente nove anni dopo la distruzione dei suoi archivi. La mente plasma la realtà?

2.4 La vita al tempo di VALIS. Negli ultimi anni della sua vita, Dick giunse a liberarsi dall’ossessione delle droghe, di cui fornì un ritratto disincantato e finanche crudele nel cruciale Scrutare nel buio (A Scanner Darkly, 1977), dedicandosi in prima persona a combatterne la diffusione, specie tra i giovani. Ex ateo convinto, si convertì alla Chiesa episcopale, gli apparve una luce rosa e cominciò ad ascoltare criptici bollettini informativi da un satellite artificiale: quello che lui chiamò VALIS, Vast Active Living Intelligence System, un’entità dai caratteri semidivini mossa da ambigue finalità. Se non si convinse di essere il nuovo messia, era sicuro di avere almeno una linea privata con il quartier generale di Dio.
Scrisse sull’argomento delle sue rivelazioni un diario di milioni di parole, i cui frammenti compongono il testo più esoterico e personale della sua opera: L’Esegesi, una sorta di diario notturno disseminato di riflessioni rancorose, forzature teoriche e derive ora mistiche ora malinconiche, capace comunque di toccare nei suoi punti migliori vette di lucido pensiero. Le questioni metafisiche, religiose e teologiche sono al centro anche dei romanzi di quest’ultimo periodo (Valis, Divina Invasione e La trasmigrazione di Timothy Archer, ovvero VALIS, The Divine Invasion e The Transmigration of Timothy Archer), riuniti nella cosiddetta Trilogia di Valis (1982).
Sul finire dei Settanta Dick tornò a occuparsi di cinema. L’opzione della Jaffe portò a una prima sceneggiatura. Tuttavia, anche per via di un approccio poco ortodosso alla materia, lo script che Robert Jaffe derivò da Do Androids Dream of Electric Sheep? stravolgeva il tema dell’opera e riuscì a suscitare solo le ire dell’autore. Dick s’incontrò personalmente con Jaffe ed ebbe modo di discutere con lui i miglioramenti da apportare, ma poi fino alla fine del ’77 non si mosse più niente. Finché l’opzione cadde e fu rilevata da Hampton Fancher, con l’intercessione di Brian Kelly. Dick ne sarebbe rimasto all’oscuro fino al 1980.
Quando la produzione del film era ormai avviata, giunse finalmente in possesso di una riscrittura della sceneggiatura dello stesso Fancher e la condannò pubblicamente. Allora i produttori si decisero a coinvolgerlo marginalmente nella lavorazione, lasciandolo comunque estraneo alla realizzazione dell’adattamento. La riscrittura decisiva fu opera di David Peoples che mise in atto i numerosi suggerimenti di Ridley Scott, modificando la sceneggiatura di Fancher e gettando le basi concrete per Blade Runner. Dick lesse il copione nel febbraio del 1981 rimanendo molto colpito dal lavoro di Peoples, che meritò così al progetto la benedizione dell’autore. Le sue impressioni positive furono confermate dalla visione di alcune sequenze finite, nel dicembre di quello stesso anno. La proiezione di questi spezzoni è documentata da una preziosa foto in cui Dick appare sorridente al fianco di un Ridley Scott soddisfatto. È questa l’ultima immagine che ci resta di lui, il simulacro di un uomo finalmente sereno.

Dick non poté mai vedere l’opera completa. Morì di colpo apoplettico quattro mesi più tardi, all’età di cinquantatre anni, il 2 marzo del 1982, lasciando tre figli, quasi cinquanta romanzi tra editi e inediti e un’agguerrita schiera di ammiratori da ambo le parti dell’Oceano Atlantico.