Piccole note sul software libero – parte prima
Piccole note sul software libero – parte seconda

OpenOffice

Un manifesto, le parole di Zacchiroli: il manifesto della libertà, perché la libertà in quest’epoca – e sempre di più andando verso il futuro – passa e passerà per il codice software, per chi lo controlla, per chi non vuole che sia controllato e anzi pretende che tutta la filiera rimanga trasparente, per tutte le implicazioni che la vita digitale ha già reso palesi. Ecco perché la chiosa di questo lungo post è anche la chiosa del primo articolo di Repubblica, dove c’è l’esplicitazione degli usi più disparati e possibili dell’opensource, e della trascendenza della sua filosofia:

L’opensource in salotto. Un settore sempre più aperto al codice libero è quello dei televisori e dei dispositivi di intrattenimento domestico. Le moderne “Smart TV” hanno bisogno, per gestire i loro servizi “intelligenti”, di sistemi totalmente diversi da quelli delle televisioni di qualche anno fa. LG, per esempio, permette di riprodurre sulle proprie TV i film, le canzoni e le foto conservati nei PC di casa utilizzando una rete interna e le tecnologie del software opensource Plex, mentre il sistema operativo dei televisori Samsung è basato su Linux, tanto che alcuni programmatori ne hanno creato un sostituto chiamato Samygo.

Usiamo software opensource anche se utilizziamo uno dei tanti box multimediali per visualizzare la cosiddetta IPTV, la televisione via connessione ADSL. Sia Cubovision, il prodotto di Telecom Italia basato su MeeGo, sia il Tiscali TvBox utilizzano tecnologie aperte.  Opensource sono anche la maggioranza dei software di gestione degli hard disk multimediali, gli apparati che, connessi a un televisore, permettono di riprodurre filmati, musica o foto conservati in hard disk interni.

Pinguini & Co. nell’auto. Necessità simili, avere un buon software già pronto all’uso da poter adattare a propri prodotti, hanno spinto Ford a dar vita al progetto OpenXC, una piattaforma composta da software basato su Android e hardware basato sul progetto italiano Arduino opensource che permette di leggere i dati dell’automobile e registrarli per poter essere utilizzati nell’auto stessa o in applicazioni per smartphone o PC.  Al momento è presente, per esempio, negli ultimi modelli di Ford Focus e Ford Fiesta, ma può essere adottato liberamente da qualsiasi altro produttore. Meego, il progetto da cui è nato Tizen descritto poco fa, è invece stato adottato da BMW per essere utilizzato nei navigatori delle sue automobili, mentre BMW e altri produttori sono consorziati nel consorzio Genivi nato per supportare l’adozione di software opensource nei sistemi di infotainment delle autovetture.

Se si entra in fabbrica. I settori più innovativi dell’informatica di consumo utilizzano software opensource e libero e ciò fanno anche le industrie più complesse, come quella aerospaziale o automobilistica. Ma opensource non è solo software o hardware. In una presentazione tenuta a una TED Conference lo scorso Giugno, Jay Bradner, un ricercatore dell’istituto di medicina di Harvard, ha descritto come il suo laboratorio è riuscito a produrre una molecola (la molecola JQ1) in grado di rallentare il processo di riproduzione di geni tumorali. Al momento dell’intuizione iniziale il team di Bradner ha coinvolto colleghi di tutto il mondo per cercare aiuto e al momento della scoperta, quando la molecola era pronta, al posto di tenerne segreta l’identità chimica, come farebbe una casa farmaceutica, l’ha pubblicata per permettere a tutti di utilizzarla. Bradner ha chiamato questo processo una “ricerca opensource sul cancro”. “La libertà di collaborare con gli altri è fondamentale per avere una buona società in cui vivere e questo per me è molto più importante di avere un software potente e affidabile”. A questo, forse, pensava Richard Stallman, padre del movimento del software libero, quando, in una conferenza, gli fu chiesto di chiarire il senso più profondo dell’opensource.

Firefox

Cooperare, senza che ciò diventi necessariamente un sistema tritatutto, socialmente omicida; anzi, lasciare che la cooperazione diventi un fattore di crescita collettivo, capace sì di generare profitto ma anche benessere, dove nessuno venga mangiato dagli squali dell’alta finanza: questo è forse l’ultimo sogno dei figli delle generazioni che dei ’60. Fondamentalmente, essi non sono lontani, ora, dal conquistare il mondo senza spargere sangue, senza essere diventati belve assetate di denaro, senza che venga schiacciata la nostra dignità, riservatezza, libertà. Anzi, la nostra Libertà: software libero, sempre, ovunque, sempre di più, è la loro arma cristallina, vincente, potente come l’energia riciclabile. Senza l’opensource, il mondo sarebbe assai simile a quello che paventava George Orwell.

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A questo punto interseca facilmente il nostro discorso un secondo articolo, sempre di Repubblica.it: l’intervista a Stefano Zacchiroli, leader di Debian, la distribuzione regina dei sistemi operativi Linux, quindi il top dell’opensource. Che esprime una visione politica del mondo che sfiora l’anarchismo illuminato.

A screenshot of Ubuntu 11.04 (Natty Narwhal).

A screenshot of Ubuntu 11.04 (Natty Narwhal). (Photo credit: Wikipedia)

Partiamo proprio da qui. In che senso un software può incidere sul nostro grado di libertà?
“Un software è libero quando l’utente ne ha il controllo totale. Che questo software giri su computer, tablet, telefono o televisione, poco importa. Libertà vuol dire poter usare il software senza limitazioni di scopi, poterlo copiare e soprattutto poter guardare come è stato fatto, ossia vederne il codice sorgente, e modificarlo. Ciascun programmatore sa decifrare il codice sorgente, mentre se ha solo il codice binario non può fare granché. Avere a disposizione il codice sorgente significa poter modificare il software e ridare al mondo, come un atto di collaborazione, le nuove modifiche”.

Proviamo a fare qualche esempio attinente alla vita quotidiana…
“Un esempio emblematico è quello del tostapane. Cinquant’anni fa uno “smanettone” era in grado di aggiustare un tostapane rotto adattandolo a un diverso impianto elettrico. Oggi, se prendiamo un tostapane su cui gira del software proprietario, non abbiamo più quella libertà. I software ci consentono di realizzare tantissime cose che prima erano impossibili. Trattandosi però di un concetto difficile, alla gente sfugge che di un software proprietario il consumatore non può fare nulla: è come avere un oggetto, ma possederne in realtà solo una piccola parte. Dal momento in cui la presenza del software negli oggetti quotidiani è destinata ad aumentare, non vedo perché i consumatori debbano rinunciare ad avere il controllo dei loro oggetti, e dunque alla loro libertà. L’obiettivo, al contrario, dovrebbe essere quello di estendere il controllo individuale a tutti i dispositivi che utilizziamo e che contengono del software. Ce ne sono un’infinità: dai computer ai telefonini, dalle macchine agli aerei, per arrivare ai pace-maker che abbiamo addosso e ai dispositivi ospedalieri che controllano la nostra vita”.

Sono parole e concetti forti. Sono prese di posizioni altamente costruttive, eppure votate alla più ampia libertà, all’autodeterminazione; alla volontà di non farsi soggiogare né dalle multinazionali né dai meccanismi che regolano le multinazionali. Stefano poi aggiunge:

A una persona non esperta può risultare difficile capire perché il free software sia ovunque, anche in sistemi/programmi tutt’altro che gratuiti. Ci spiega perché?

Google Chrome

Google Chrome (Photo credit: thms.nl)

“Chi crede nella filosofia del software libero, accetta che il software sia un bene comune: si lavora su un prodotto che, una volta pronto, è per tutti. Non si mettono restrizioni su chi può o meno usare un determinato software. A questo punto, ecco che tra gli utilizzi possibili rientra anche il “fare soldi”. Per questo il software libero è presente in tantissimi oggetti commerciali. Ci sono dei vincoli, come ad esempio l’impegno a condividere con gli altri eventuali modifiche, ma non c’è nulla di illegale. Di conseguenza, enormi sono gli interessi commerciali delle aziende che si basano sul nostro lavoro. Gli sponsor delle nostre conferenze sono Google, IBM, HP; l’azienda che sta dietro Ubuntu ha 500 dipendenti ed è una multinazionale. Il bello è che in buona parte queste grandi aziende si affidano al lavoro fatto da noi: mille prodi volontari”.

Dall’elenco mancava Apple, la nemica giurata dei sostenitori del free software.
“Dal mio punto di vista, il successo di Apple sta nell’aver trasformato i computer da strumenti su cui si producevano contenuti a macchine per consumare contenuti. A ciò bisogna aggiungere un’attenzione maniacale ai dettagli, che li ha portati a meritarsi il primato. Secondo me, però, stanno facendo un sacco di danni ai consumatori. Punto primo: non sappiamo cosa fanno i loro dispositivi. Per esempio, è stato scoperto che gli iPhone tracciavano gli spostamenti degli utenti, un fatto a mio avviso molto inquietante. Il secondo aspetto è legato ai DRM (Digital Right Management): ogni volta che compriamo delle canzoni su iTunes, non sappiamo se ce le avremo per sempre e non possiamo prestarle ai nostri amici. Quando compriamo un cd, invece, sappiamo che sarà nostro per sempre. Hanno trasformato il concetto di app store (che trae le sue origini dalle distribuzioni di una quindicina d’anni fa) in un dispositivo di censura: il software disponibile su un iPhone non lo decide l’utente, bensì deve aver passato il vaglio della Apple. Nel mondo Android, per lo meno, ci sono anche gli store non ufficiali”.

Oltre alla libertà, quali sono gli altri vantaggi del software libero rispetto a quello proprietario? Cosa intende chi parla di “superiorità” del free software?
“Da tempo si sa che il software libero non ha nulla di inferiore a quello proprietario, anzi. È bene non generalizzare perché ci sono software proprietari fatti benissimo e altri malissimo. Da anni sappiamo che, in termini di sicurezza, il software libero offre vantaggi inimmaginabili. Tutto è visibile, quindi anche se potenzialmente i “cattivi” (i cracker) possono trovare più facilmente delle falle, c’è anche molta più gente che può controllare e risolvere. Più in generale, un’azienda che fa business su software non libero ha interesse a nascondere i problemi di sicurezza perché sono cattiva pubblicità. Nel software libero, invece, tutto è già visibile e non c’è nessun interesse a nascondere”.

Continua

A chi segue le vicissitudini del mondo software, sia lato programmazione e/o sistemistico che lato utente finale, sarà capitato di assistere sempre più spesso a dibattiti sul software libero vs software proprietario. In sostanza, gli operatori e gli appassionati del mondo digitale si dividono in due categorie: chi sceglie programmi e sistemi operativi blindati, di cui si è semplici utenti o poco più e di cui si può diventare comunque degli specialisti (vedi per es. Microsoft, Windows, Apple, iPhone etc.) oppure chi diventa paladino dei prodotti scritti e gestiti con licenza opensource, ovvero software non blindato e accessibile a chiunque abbia la capacità di modificare e scrivere codice (Linux, Openoffice, Firefox, Android).

Tux, the Linux penguin

Tux, the Linux penguin (Photo credit: Wikipedia)

Image representing Windows as depicted in Crun...

Image via CrunchBase

La macro differenza tra software proprietario e software opensource, libero, è fondamentalmente quella esposta qui sopra. Nell’ambito del software libero esistono poi sofisticazioni maggiori, tali da permettere di costruire del codice proprietario su licenze opensource; Google, per esempio, parte da una base free per costruirci sopra del proprio codice, chiuso. Lo stesso avviene nel mondo Linux, dove le varie distribuzioni presenti non sempre aderiscono completamente allo spirito free del celebre sistema operativo aperto; però, in buona sostanza, laddove si parla di software libero si può affermare che la possibilità d’incappare in qualche prodotto che fa cose alle vostre spalle, di cui non ve ne renderete mai conto, si assottiglia notevolmente, proprio perché al controllo c’è una comunità attenta alla programmazione, che sa leggere cosa fa un programma e che quindi può modificarlo all’uopo.

Repubblica.it nei giorni scorsi ha dedicato ben due articoli al mondo opensource, che nasce dalle lotte libertarie (non certo liberiste) degli anni ’60 nei campus universitari degli USA. Il primo articolo da cui ho preso spunto è quindi qui, dove si pone l’accento sulla grossa chance che il software libero sta avendo nel mercato dei sistemi operativi e non solo; punti di forza notevoli quelli dell’opensource, che passano per le alte performance, per l’affidabilità e la sicurezza, livelli di alta qualità che riescono spesso a convincere l’utente finale sulla convenienza economica nel passare a questa filosofia digitale: perché i prodotti totalmente opensource sono pressoché gratuiti, mentre quelli sviluppati sul free software sono spesso gratuiti o al massimo costano davvero poco se confrontati con i prodotti blindati, quelli proprietari, che costano sensibilmente di più (vedi licenze di Windows, per esempio, o di Microsoft Office).

PIÙ LA SOCIETÀ digitale evolve, più l’opensource, il modello di distribuzione libera e gratuita del software e del suo codice sorgente reso popolare dalla distribuzione Linux, guadagna fiducia e attenzione. Una delle ultime previsioni della società di analisi Gartner dedicata a questo mercato ha indicato che, nel 2016, il 99% delle principali aziende utilizzerà almeno un software opensource (era il 75% 2010). E, il più delle volte inconsapevolmente, lo stesso stanno facendo oggi milioni di persone.

I vantaggi sono innegabili. Il software opensource è già pronto, economico, modulare. Ma è anche di qualità. Secondo una ricerca pubblicata da alcuni giorni fa dalla società di analisi software Coverity, i software opensource hanno anche meno difetti dei software con codice proprietario. La ricerca ha confrontato, con procedure automatiche, 45 software opensource e 41 software a “codice chiuso” rilevando come, nel primo caso, la densità di difetti (ossia il numero di difetti riscontrati suddiviso per le dimensioni del codice con cui è programmato il software) sia pari, in media, a 0,45, mentre quella dei software proprietari sia pari a 0,64. Poco importa che, paragonando software dalle dimensioni equivalenti, la forbice diminuisca quasi a scomparire. Importante è che la ricerca definisca quanto tutti sapevano da tempo: il software opensource è progettato con qualità.

Questo ci dice il suddetto articolo di Repubblica, che continua:

Un bene per l’industria. Per dirla con Mark Shuttleworth, il milionario fondatore di Ubuntu, una delle più diffuse versioni di Linux, il software opensource “accresce l’innovazione tecnologica, ne consente l’accesso anche alle zone periferiche del mondo e permette ai programmatori di esprimere al massimo le loro capacità”. Il principio riceve conferme anche dall’ampia diffusione di progetti a codice aperto che, senza clamori, sono alla base di decine di attività quotidiane: quando usiamo il computer, quando navighiamo su Internet, quando usiamo lo smartphone, quando guidiamo un’automobile.

L’opensource ci circonda. Usiamo software opensource quando navighiamo su Facebook, su Twitter, su Google, su Wikipedia. Per dirne una, Facebook  probabilmente non sarebbe nato se Mark Zuckerberg  non avesse avuto a disposizione il linguaggio di programmazione PHP, basato su standard aperti e rilasciato con licenza libera così da poter essere utilizzato senza dover pagare diritti. Ancora oggi l’intera infrastruttura di Facebook si basa su software a codice aperto, software che chiunque può scaricare, installare ed utilizzare per i propri servizi.

Non stupisce che l’ambiente di principale utilizzo di software opensource sia Internet: le tensioni libertarie maturate dai movimenti americani degli anni Sessanta, in cui affonda le radici il pensiero teorico dell’opensource, hanno segnato anche la nascita della grande rete (“io sono nato tra una marcia di protesta e un’occupazione universitaria”, dirà il fondatore di Linux, Linus Torvalds). Se navighiamo il Web usando Firefox o Chrome, il browser progettato da Google, stiamo usando due prodotti opensource, che da tempo erodono vistose quote di mercato a Internet Explorer facendolo scendere al di sotto del 50% nonostante il navigatore sia preinstallato nel 90 per cento dei computer del mondo.

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