China Miéville in pochi anni è diventato uno degli scrittori imprescindibili della narrativa fantastica, dimostrando un’eccezionale abilità narrativa, risolutezza ed effervescenza di idee e di immaginazione, nonché capacità di intessere storie avvincenti e inedite. Embassytown, pubblicato nel 2011, ne è una straordinaria riconferma.
Premetto che la mia opinione è indubbiamente di parte, poiché il romanzo è incentrato su una tematica che mi affascina moltissimo in tutte le sue variegate declinazioni, ovvero il linguaggio. Embassytown, infatti, poggia su un solido sostrato speculativo, che non si traduce in pesanti digressioni meramente teoriche, bensì si fonde con trama e descrizioni per dar vita a un’immersione narrativo-sensoriale-filosofica.
Lo stile caratteristico di questo libro potrebbe essere una delusione o noioso per chi preferisce costruzioni essenzialmente incentrate sul susseguirsi di azione, climax e avvenimenti. Per affrontare Embassytown e gustarlo appieno bisogna lasciarsi avvolgere dal romanzo stesso, dalle impressioni, a volte distinte altre sfocate, che suggerisce.
La storia è narrata direttamente dalla protagonista, Avice Benner Cho, attraverso il suo peculiare punto di vista, filtrato dalla sua percezione e dalle sue emozioni, e dal ricordo degli eventi passati. È spiazzante, soprattutto all’inizio: ci si ritrova in una realtà altra, senza punti di riferimento o dettagli grazie ai quali ricostruire questo mondo intrigante ma sconosciuto, che si svela soltanto nello svolgersi della storia. La complessità – e bellezza – del romanzo non è dovuta solamente a questo aspetto – una vaghezza studiata e cesellata – ma soprattutto allo stile e alle scelte linguistiche, talora ardite, arricchite da termini presi da altre lingue o costrutti inediti o particolari. È un romanzo che non tende a spiegare minuziosamente, che non si profonde in passi retorici, ma mira a coinvolgere in maniera appassionata e magnetizzante, per far riflettere e trasmettere il proprio messaggio proprio grazie ad un forte coinvolgimento empatico, emotivo e figurativo.
La storia si svolge su un pianeta alieno, ove si è stabilita una colonia di esseri umani che convivono in base a delicati equilibri con la specie aliena degli Ariekei, chiamati anche Hosts. Gli Ariekei sono affatto singolari ed estremamente affascinanti: una sorta di ibrido, con sottili e ampie ali e due bocche. La loro peculiarità – un elemento vitale, sacro oserei dire – è il linguaggio, che emettono dalle due bocche distinte, pronunciando ogni parola simultaneamente a due voci, senza alcuna distinzione tra fonia e significato, soprattutto senza mai poter mentire – poiché la loro lingua può riferirsi soltanto a cose reali ed esistenti. Gli esseri umani, abitanti di Embassytown, per poter comunicare e relazionarsi con gli Ariekei, hanno creato, in seguito a manipolazioni genetiche e alla biotecnologia, gli Ambassadors, gli Ambasciatori, individui di spicco, uniti in coppia, Rappresentanti degli umani stessi. Talvolta gli Ariekei, consci della difficoltà di comunicare e comprendere concetti ed idee a loro estranei, utilizzano dei soggetti umani particolarmente predisposti, che fungono da sorta di tramite di quanto inesprimibile altrimenti. Tra costoro c’è anche Avice, che oltre ad essere una immerser – ossia capace di fluttuare, navigare e orientarsi nella parte più sconosciuta dello spazio, l’immer – è stata scelta anche per essere una simile.
“Before the humans came, we didn’t speak so much of many things. Before the humans came, we didn’t speak”. Questa è una esemplificazione della forza dirompente di Embassytown, del saper discorrere attraverso una storia accattivante della fragilità e della doppiezza del linguaggio, del suo significato e del suo senso stesso di esistere, sulla sua enigmaticità ontologica, il suo essere punto di riferimento, di vicinanza ma anche di diversità tra civiltà differenti, del suo legame così ambiguo con la realtà esistente e con l’immaginazione. In un certo senso, questa considerazione si potrebbe tradurre come una riflessione sulla narrativa fantastica stessa, in tutte le sue ramificazioni: come e quale linguaggio può utilizzare una storia che narra qualcosa che non esiste? Raccontando l’immaginario, il linguaggio rende reale ciò che non è oppure è soltanto un susseguirsi di inganni? Queste e altre speculazioni possibili sono infinite e tutte meravigliose, così intrinsecamente connaturate all’esistenza stessa, così disorientanti perché spogliano l’uomo di alcune certezze basilari – l’esistenza di ciò che è a cui egli dà nome.
Se la tematica richiama Babel-17 di Samuel R. Delany, Embassytown si colloca decisamente su un altro livello, è molto più profondo, sofferto, sottende un dramma esistenziale-filosofico ben più forte. Un palpito simile, soprattutto nell’intima, tormentata e delicata contrapposizione tra l’uguale e il diverso (uomo/alieno), mi ricorda maggiormente alcune straordinarie pagine di Ursula K. Le Guin; così come alcune riflessioni sul legame ontologico tra linguaggio e realtà non ha potuto non richiamarmi lo straordinario dibattito interno alla poesia italiana del Novecento.
Un romanzo, quindi, che assorbe completamente, affascina, dai tratti talora così intimi quanto in altri passi quasi epici, che, nonostante non sia impeccabile, personalmente credo si possa annoverare non solo come alto esempio di narrativa fantastica, ma osare classificare come letteratura.