Laura Li - Ultradandies

Un’immersione nei colori psichedelici di un mondo al limite tra l’onirico e lo psichico, voluttuose tracce di nero china che delineano avvenimenti di un’altra dimensione, distopica ma anche ammaliante. Questo è Ultradandies di Laura De Luca, in arte Laura Li, “illustratrice e investigatrice della psiche, viaggiatrice di mondi reali e paralleli”, come ama definirsi, con la quale ho avuto il piacere di scambiare una chiacchierata virtuale a proposito della sua opera.

Laura, che cos’è Ultradandies?
Ultradandies è un progetto artistico-letterario che unisce scrittura e disegno, mescola differenti tecniche artistiche (stile figurativo e astratto, fumetto, fotografia, grafica digitale) e influenze provenienti da cinema e letteratura fantastica, e sotto la metafora delle avventure dei personaggi vuole trasmettere la speranza di un progresso di coscienza per l’umanità.

Qual è la trama della storia?
Dopo un efferato conflitto e trasformazioni tecno-biologiche, il mondo si è diviso in Dimensioni. Sovrani dispotici e assoluti ne sono gli Dèi, imperituri e incorporei, padroni di tutta la più elevata conoscenza, che possono rendere la vita più o meno tollerabile a seconda del livello di devozione loro offerto.
I tre personaggi protagonisti sono Chei, Tanit e Pola, creature angeliche e crudeli, poetiche e medianiche, discendenti di un’antica casta di maghi scienziati sterminati dagli Dèi durante le faide per la presa del potere. Chei è un artista scienziato con uno stile di vita che rammenta Oscar Wilde, Pola è la più trasgressiva e ama agire al di fuori dalla legge, Tanit è attratta da tutto ciò che è bizzarro, sensuale e ai limiti del razionale.
Relegati nell’oblio nella decadente terra di Amenti, asilo di sbandati ed emarginati, essi sopravvivono come contestatori e fuorilegge, osando opporsi alla politica della Quinta Dimensione. Tuttavia, il tempo li ha resi ormai abulici per la privazione di ogni orizzonte, immobilizzati in una realtà di espedienti, traffici illeciti, estraniamento. Sarà l’arrivo di un tondo viaggiatore dello spazio, un alieno filosofo e ricercatore, che saprà spingere i tre a rivoluzionare completamente le loro esistenze.

Da dove nasce l’idea?
L’idea è nata da un sogno reale che ho poi trascritto, una fiaba nera dove un uomo e due donne si risvegliano da un lungo sonno e fuggono da un tiranno che li ha imprigionati in un mondo parallelo oscuro e claustrofobico, e per mantenere la loro libertà i tre devono scrivere un racconto ogni giorno.

Dei tuoi disegni mi piace molto sia la linea morbida che scivola quasi senza soluzione di continuità sulla tavola dando vita alle forme, sia l’accostamento del bianco/nero a colori molto accesi. Come definiresti il tuo stile?
Il mio stile è una fusione di innumerevoli ispirazioni, dalla grafica giapponese a quella psichedelica, da Tamara De Lempicka, al mondo della moda, al dandysmo.
Mi stimola molto la contemporaneità, la mescolanza di linguaggi dis-continui, a-logici, cogliere come un’antenna informazioni e messaggi da tutto il mondo, stratificazioni in evoluzione.

Perché una scenografia fantastica?
È stata una scelta istintiva: la fantascienza e il gotico sono le mie prime letture. Fin da bambina, infatti, mi perdevo nei fumetti anni ’70 di mio padre (Flash Gordon, Mandrake, Valentina, Corto Maltese). In seguito le mie letture si sono orientate tanto al fantastico che ai fondamentali Edgar A. Poe, Franz Kafka, Jorge Borges, William Burroughs.
Le ambientazioni di Ultradandies, comunque, sono più che altro suggerite: descrivo un mondo fluido, onirico, frutto di uno stato mentale. Violenza e sesso esplicito sono banditi; aveva senso darne rilievo nel passato per infrangere i tabù e sfidare una morale ipocrita, mente adesso è diventato piuttosto un cliché commerciale.

Nel tuo lavoro parli di tecnologia combinata a magia. Lo scrittore Arthur C. Clarke sostenne che “ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. Cosa ne pensi?
In Ultradandies non si tratta di tecnologia nel senso comune, poiché si sfrutta il potenziale psichico dei personaggi, il paranormale, i flussi energetici. Ultradandies è, per citare William Gibson, è “un’avventura di viaggio direttamente collegata al sistema nervoso”.
La frase di Clarke è più che mai profetica; ad esempio si pensi al Junk DNA: DNA non codificante la cui frequenza, ovvero la stessa informazione genetica, sarebbe influenzabile tramite raggi laser opportunamente regolati. Questo richiama i Veda, il pensiero esoterico del Logos, le guarigioni miracolose…

Charles Baudelaire assimilava la natura (il mondo, generalizzando) a “foreste di simboli”. Anche nel tuo lavoro la simbologia non manca. Ritieni che sia importante per l’uomo riuscire a scoprire i simboli dai quali è circondato?
Il simbolo mi ha sempre affascinato, l’albero della vita era una delle mie ossessioni. È un mezzo potentissimo: il glifo che ci permette la sintesi, la comunicazione con aspetti del subcosciente altrimenti sigillati.

Uno dei messaggi che hai voluto trasmettere è la necessità di rivoluzionare il proprio io per sperare in un progresso di coscienza per l’umanità. Secondo te è possibile nella nostra realtà?
Me lo auguro! Il tema cruciale degli Ultradandies è il viaggio, psichico e reale, e vuole spronare ad aprire le porte all’immaginazione, al cambiamento, ad uscire dalla mediocrità. Le persone sono condizionate dall’immobilità di pensiero e di azione, si rinchiudono nella routine nella speranza di arrestare il tempo nell’illusione di averne chissà quanto a disposizione. In Italia domina una sorta di catalessi e rassegnazione, in questo senso, ma io non ci sto e nel mio piccolo combatto da sempre la mia battaglia.

È disponibile per ora solo un’anteprima di Ultradandies. Dove e quando si potrà acquistare l’opera completa?
Per adesso sono alla ricerca di un editore, è un prodotto non facilmente catalogabile ma ha un suo potenziale commerciale e quindi sono ottimista.

Altri progetti?
Al momento sono impegnata in un progetto in Marocco, dove sto costruendo una casa-laboratorio per artisti e creativi di tutto il mondo (un piccolo anticipo sarà il progetto Marocco Club).
Il viaggio degli Ultradandies però prosegue, verso un nuovo mondo, dove il rapporto fra immagine e parola sarà ancora più magico.

Laura Li - Ultradandies

Vincitore agli Oscar 2011 dell’Academy Award for Animated Short Film, The Lost Thing è un cortometraggio d’animazione della durata di quindici minuti, diretto da Andrew Ruhemann e Shaun Tan, narrato dalla voce di Tim Minchin.

Shaun Tan, già noto e pluripremiato a livello internazionale, è un narratore sorprendente, capace di catturare l’attenzione grazie al suo variegato immaginario e al lirismo delle sue storie. Protagonista del cortometraggio è un ragazzo solitario e introverso, instancabile collezionista di tappi di bottiglia. Un giorno, mentre si sta dedicando a questo hobby sulla spiaggia, si imbatte in una creatura singolare, una specie di teiera-granchio. Resosi conto che essa si è perduta, abbandonata tra l’indifferenza di tutti, cerca di scoprire a chi appartenga e di ritrovare la sua casa.

L’ambientazione ricreata da Tan è volutamente inquietante: decadenti edifici di cemento sui quali si arrampicano tubi arrugginiti, una città statica e sprofondata, come in alcuni dipinti di Edward Hopper, in una sorta di apatia, di noia post-industriale. Anche i suoi abitanti sono affini al mondo autistico che popolano, completamente assorbiti in se stessi, nelle proprie abitudini rituali e in una vita desolata e incolore, tanto che nemmeno notano la creatura e non vogliono a nessun costo interrompere la routine per aiutarla. Nel disinteresse generale e ostacolato da una burocrazia kafkiana, solo il giovane, commosso dall’infelicità di questo curioso essere, se ne prende cura.

A tratti struggente, a tratti gioioso, questo corto seduce con una grafica fiabesca ed è sorretto da un solido costrutto di progettazione, animazione, suono e musica. Contraddistinguendosi per eleganza e semplicità, dipinge un mondo surreale che fonde il quotidiano, l’insolito e il bizzarro. La storia è speciale non solo per l’impianto grafico-narrativo, ma poiché invita a guardare il mondo con occhi diversi, per accorgerci di quanto ci circonda e recuperare la fiducia nel valore della bontà. Il concetto di cosa perduta, inoltre, ha una sottile venatura filosofica: può essere simbolo della natura, dell’innocenza, oppure il dilemma di aver smarrito se stessi o la propria parte più umana; sono molte le interpretazioni possibili.

Abile a governare l’incantesimo che lega immagine e parola (“io uso il testo come malta tra le piastrelle delle figure: il testo è un tessuto connettivo tra le immagini che raccontano la storia”), la visione di Shaun Tan è peculiare e vuole trasmette significati profondi soprattutto tramite l’emozione e l’empatia. In tal senso, rammentando una citazione di Neil Gaiman (“He had gone beyond the world of metaphor and simile into the place of things that are, and it was changing him”) e leggendo un’intervista congiunta pubblicata poco tempo fa sul Guardian, ho ravvisato che le analogie tra questi due autori e la loro poetica non sono poche.

In The Lost Thing, così come in alcuni testi gaimaniani (si pensi a Neverwhere e Stardust, solo per citarne un paio), l’impianto fantastico è strumento ed espediente fondamentale per veicolare un messaggio di valenza universale. Altri punti di contatto sono, ad esempio, la staticità e grettezza in cui sprofonda il quotidiano, l’attenzione ai particolari apparentemente insignificanti ma dietro ai quali si celano meraviglie e altre dimensioni, il superamento dell’egoismo, del disinteresse, delle proprie ristrette vedute, l’emozione e l’empatia che risvegliano l’io. Fattore fondamentale è, in primis, la curiosità, quale capacità di gettare uno sguardo profondo e diverso sul mondo, vederne e valutarne le sfaccettature. Solo grazie alla curiosità, cui è strettamente legato il desiderio di arricchimento interiore, è possibile superare l’indifferenza e riuscire finalmente a vedere davvero. In secondo luogo, centrale è il ruolo dell’emozione, che, intesa anche in senso etimologico (e-moveo) si ricollega direttamente all’empatia. Essere in grado di provare empatia spinge a mettersi in gioco, ad andare oltre il sé: se l’individualismo è fondamentale per coltivare se stessi, rendersi individui e non massa, l’empatia è la summa in cui convergono curiosità ed emozione, nonché uno degli strumenti fondamentali concessi all’essere umano per salvare se stesso e compiere un salto evolutivo di consapevolezza.

Questo assunto non è soltanto mera speculazione. La teoria dei neuroni specchio, di recente tornata in voga a seguito dell’uscita del film L’alba del pianeta delle scimmie, il cui lancio è stato accompagnato anche da approfondimenti (questo ne è un esempio interessante) a cura di uno dei maggiori studiosi odierni, il primatolgo Frans De Waal, consente un nuovo approccio agli schemi relazionali tra esseri umani, punto fondamentale dei quali sarebbe proprio l’empatia (ben diversa dall’altruismo), pur legata al restante complesso sistema emozionale umano. Un nuovo metodo di studio per una gamma eterogenea di discipline, quindi, che beneficia dell’apporto delle tesi della fisica quantistica e delle teorie delle complessità, le quali si sono rivelate particolarmente proficue nello studio dell’interazione dinamica degli organismi viventi. L’empatia, anche scientificamente, corrisponderebbe all’accettazione della sfida diretta a superare i limiti del singolo, a sviluppare conoscenze innovative e creative non solo per i propri fini. A lungo termine essa potrebbe incentivare il rinnovamento dalla declinante società meccanicistica e iper-capitalistica verso una società ventura empaticamente partecipata.

E, sotto forma di fiaba immaginifica e affascinante, congiuntamente all’aforisma “today is the tomorrow you expected yesterday”, Shaun Tan ci indica l’inizio di un simile percorso.

Anne McCaffrey

“Improvvisamente mi chiesi: che cosa succederebbe se i draghi fossero buoni?” (A. McCaffrey)

Prima parteSeconda parte

The Dragonriders of Pern è l’opera più nota di Anne McCaffrey.
Le storie sono ambientate sul pianeta Pern, facente parte del sistema di Rukbat, sul quale i terrestri si sono stabiliti da migliaia di anni, tanto da dimenticare le proprie origini di colonizzatori giunti dalla Terra attraverso lo spazio e l’avanzatissima tecnologia che avevano a disposizione.
La più grande minaccia per Pern sono i fili (thread), che cadono dal cielo bruciando e devastando ogni cosa e causati dal ciclico ripresentarsi della Stella Rossa. Per combatterli gli abitanti hanno da tempi remoti sviluppato una particolare simbiosi e telepatia con i draghi, il cui ardente respiro riesce a sconfiggere i fili.

L’organizzazione sociale che i colonizzatori terrestri hanno cercato di costruire presenta alcune caratteristiche simili al feudalesimo; è inoltre fortemente stabile e improntata all’utopismo, volendo rappresentare una compagine ideale destinata a evitare la violenza e l’eccesso dei propri antenati e al contempo garantire equamente il benessere e la giustizia. Una simile struttura richiedeva una notevole concentrazione di risorse socio-economico e un sistema altamente efficiente e ben gestito – che nella prima epoca era amministrato da diversi Weyr perfettamente organizzati.
Un idillio, in un primo momento, che dopo secoli di insediamenti umani è man mano degenerato, tanto che alcune zone decaddero completamente oppure furono soggette al dispotismo − quasi a sottolineare amaramente come sia facile per l’uomo ripetere i suoi stessi errori.
Le problematiche socio-economiche che col tempo sono venute a crearsi, le insidie sempre più imprevedibili e devastanti dei fili, rendono consapevoli i personaggi principali della necessità di rivedere e rinnovare l’intero sistema, trovare soluzioni nuove maggiormente integrate con l’ambiente, valorizzare le risorse e trovarne di alternative, impiegare nuove tecnologie, recuperare la cultura e le conoscenze dei progenitori ormai perdute.
Tematiche importanti, quindi, che si accompagnano al profondo valore attribuito alla democrazia, alla lealtà, al rispetto per tutte le creature viventi, sorrette da un solido impianto scientifico e speculativo; viene sottolineato, inoltre, come in alcuni momenti storici sia inevitabile la spaccatura tra tradizionalismo e modernismo, il necessario impulso verso il cambiamento, desiderato quanto temuto.

Romanzi e racconti non si susseguono in ordine cronologico, bensì singolarmente o a piccoli  gruppi raccontano uno spaccato della storia di Pern: ciò perché il vero nucleo della narrazione è proprio questo pianeta e il suo ecosistema, la storia e i misteri che porta con sé dall’arrivo fortunoso dei primi umani; non è solo una cronaca di vicende, ma la capacità di far vivere un universo altro.

Il successo strepitoso di questa saga, amata da fan vecchi e nuovi, è testimoniato anche dai numerosi siti ad essa dedicati, dalla fan art ispirata a personaggi e scenari, dalla pubblicazione di The Masterharper of Pern, cd con musiche di Mike Freeman e Tania Opland e supervisionato dalla stessa McCaffrey, dal fatto che alcune storie di The Dragonriders of Pern potrebbero arrivare persino nelle sale cinematografiche già il prossimo anno.
Non da ultimo, una delle migliori scrittrici fantasy odierne, Robin Hobb, ha dichiarato ufficialmente il ruolo fondamentale che ha avuto la McCaffrey nell’ispirazione delle sue storie.

Particolare menzione merita un altro libro, The Ship Who Sang, l’opera preferita dalla scrittrice stessa e dedicata “alla memoria del colonnello, mio padre, Herbert George McCaffrey, soldato patriota cittadino per il quale ha cantato prima nave”.
La protagonista è Helva, una brainship, ossia un cyborg molto particolare, un cervello umano incapsulato in una navicella spaziale ad altissima tecnologia.
Ambientato nel futuro e nella Federation of Sentient Planets, i genitori di bambini con gravi disabilità fisiche, ma dall’intelletto integro e particolarmente dotato, possono permettere loro, invece di essere sottoposti ad eutanasia, di sopravvivere come cervelli chiusi in un guscio di titanio munito di collegamenti informatici e nervi sensoriali legati a un computer, e istruiti per diverse professioni. Alcuni, i migliori, sono impiegati come brainship in grado di operare in modo indipendente, benché di solito accompagnati da una persona (brawn) che viaggia sulla nave quale pilota/equipaggio con specifiche missioni interplanetarie da compiere.

Anne McCaffrey è una grande intessitrice di storie di affascinanti universi remoti, avventure dalle quali lasciarsi assorbire completamente, traboccanti del mitico sense of wonder, benché mai affatto avulse dalla realtà, poiché lasciano filtrare le problematiche del suo tempo e preoccupazioni per il futuro.
È dotata, inoltre, di una straordinaria profondità nell’affrontare i sentimenti e la complessità dei personaggi, riesce a fondere mirabilmente, in modo intenso e acuto, narrazione ed emozioni: immaginazione e passioni, scenari fantastici e protagonisti sono un tutt’uno, straordinariamente vivi e coinvolgenti.
I mondi della McCaffrey mostrano come la fantasia, sostrato fondamentale a cui la scrittrice attinge copiosamente, e il fantastico permettano di esplorare realtà alternative, abbiano la potenzialità di mettere di fronte a storie nelle quali qualcosa di inaccettabile possa diventare ordinario, costringendoci a seguire percorsi di riflessione che permettono di osservare la realtà in maniera più critica, ma anche di immaginarla – o costruirla – più stupefacente.

Anne McCaffrey

Prima parte

Tutta l’opera di Anne McCaffrey risente fortemente della sua personalità, dell’orientamento che ha sempre coraggiosamente cercato di imprimere alla propria vita e degli ideali che ha riversato nelle sue storie, certa che fossero un mezzo per condividere valori e considerazioni con più persone possibile.

La sua formazione fu influenzata dallo studio delle lingue straniere, della letteratura, della storia, della mitologia, e dalla sua passione per il teatro e la musica.
Fondamentali furono le sue letture: dopo le avventure di Rudyard Kipling, fu conquistata dal genere fantastico grazie alle storie di Abraham Merritt, di Edgar Rice Burroughs, soprattutto la serie di John Carter, al romanzo utopico Islandia di Austin Tappan Wright, a Rupert of Hentzau e The Prisoner of Zenda di Anthony Hope, fino alla grande stagione d’oro della fantascienza, a partire dagli anni Cinquanta, che la già adulta Anne amò visceralmente tanto da ardire a scriverne anche lei stessa.
In questo fu una delle pioniere del tempo: essere, tra la fine degli anni ’50 e primi anni ’60, una donna che desidera affermarsi in un genere che contava lettori e autori prevalentemente maschili, per lo più contraddistinti da atteggiamenti reazionari e diffidenti verso le scrittrici di fantascienza e la loro produzione, soprattutto se le protagoniste erano eroine, donne emancipate e fuori dai canoni rispetto alla mentalità del tempo. Per essere credibile e accettata era necessario dimostrare di scrivere in maniera valida e di argomenti tali da convincere e attirare il pubblico più scettico e  i colleghi scrittori, che si dimostravano particolarmente inflessibili e critici.

Per Anne fu una sfida di cui non aver timore e che vinse brillantemente.
Cresciuta come una giovane ragazza sensibile e intelligente i cui principali amici erano i libri, aveva presto imparato a scontrarsi con un mondo duro che rifiutava idee diverse, a essere orgogliosa di avere una propria personalità indipendente, ad avere coraggio sufficiente per seguire la propria strada interiore (si ricordi in quali anni visse la propria giovinezza).
“Si impara a essere non conformi, − disse la scrittrice − a evitare le etichette. Ma non è facile! Eppure ci si accorge quante risorse interiori possiedano proprio coloro che hanno avuto sempre la forza di essere al di fuori della mentalità del gregge. Così la mente impara la libertà di pensiero e a comprendere il potere della fantasia.”
Questo suo modo di essere è rivelato in A life with Dragons, la sua biografia ufficiale uscita nel 2007 a cura di Robin Roberts, in cui è delineata la figura affascinante e complessa di questa donna che ha creato i suoi mondi immaginifici attingendo a piene mani dalle esperienze della propria vita, che ha rifiutato di chiudersi nei ruoli sociali tradizionali; una giovane madre che ha voluto dedicarsi anche alla scrittura, un’americana che se n’è andata dal proprio paese sola con due figli, un’amante degli animali che sognava mondi ove convivessero in perfetta armonia uomo e natura, una moglie intrappolata in un matrimonio infelice a cui ha avuto il coraggio di sottrarsi nonostante lo scalpore; una scrittrice che ha sempre amato i propri fan, di una gentilezza squisita verso chiunque, sempre pronta a una parola di incoraggiamento e stima verso i colleghi, troppo modesta per ammettere che i suoi libri erano diventati dei classici.
Questa autonomia di pensiero e autodeterminazione si percepisce fin dalle prime opere pubblicate, nelle quali alle donne in primo piano viene rifiutato il ruolo classico e marginale, per diventare protagoniste perspicaci e indipendenti, capaci di risolvere le situazioni da sole, rifiutando la tipica impostazione che voleva soprattutto eroi maschili e conflitti uomo-mostro.
La McCaffrey è stata molto apprezzata per la sua capacità di raccontare l’universale e trasmettere contenuti di valore oltre i limiti della narrativa di genere, utilizzando ampiamente l’apporto del mito e al contempo sovvertendo le regole delle leggende tradizionali, riconoscendo o ignorando le convenzioni.

Non si possono non ricordare altre due grandi scrittrici e antesignane della narrativa fantastica dell’epoca, Marion Zimmer Bradley, in particolare il suo ciclo fantascientifico di Darkover, e la grandissima Ursula K. Le Guin.
È singolare notare che i romanzi della Le Guin della pentalogia di Earthsea uscirono all’incirca negli stessi anni dei primi romanzi di The Dragonriders of Pern: in entrambe le saghe viene cambiata radicalmente la visione classica del drago presente fino ad allora nella narrativa fantastica, per renderlo un animale dalla valenza positiva, antico, saggio, depositario di infinita conoscenza.

Terza parte

Anne McCaffrey

Ci sono mondi che una volta spento l’e-reader (o dopo aver chiuso il libro, come si diceva una volta) rimangono talmente impressi da far percepire una velata nostalgia verso una realtà altra che è riuscita a coinvolgere in maniera assoluta, a trasportare davvero altrove.
Una scrittrice capace di tale incantesimo è Anne McCaffrey, purtroppo mancata alla fine dello scorso anno e considerata una delle maggiori scrittrici di fantascienza: nel corso dei suoi 46 anni di carriera ha vinto il Premio Hugo e il Premio Nebula, il suo The White Dragon è stato uno dei primi romanzi di fantascienza ad entrare nella classifica dei bestseller del New York Times, le è stato conferito il titolo di Grand Master of Science Fiction nel 2005 e il suo nome è stato iscritto nella Science Fiction Hall of Fame nel 2006.
A livello internazionale sono state innumerevoli le testimonianze di stima e cordoglio e gli articoli commemorativi al momento della scomparsa, sia da parte di scrittori, editori, giornalisti, che di amici e fan. Pressoché sconosciuta e dimenticata in Italia, quasi nessuno l’ha rammentata se non con formali e sintetici trafiletti di circostanza.
Per questo motivo, ci tenevo a ricordarla almeno con una nota bio-bibliografica, sperando che solletichi in qualcuno il desiderio di avventurarsi nelle sue storie.

Anne Inez McCaffrey nacque nel Massachusetts il 1° aprile 1926; suo padre era un colonnello dell’esercito in pensione e sua madre era agente immobiliare. Nonostante i numerosi trasferimenti della famiglia in stati diversi, la giovane Anne si laureò brillantemente in Lingue e letterature slave, e in seguito provò ad impiegarsi nel teatro, sia come attrice che regista, e studiò canto per nove anni, passioni che si rifletteranno in maniera ricorrente in molti dei suoi romanzi.
Pur avendo iniziato a scrivere fin dai giorni della scuola, le sue prime storie pubblicate sono state Freedom of the Race, relativa a donne incinta di creature aliene, su Science-Fiction Plus nel 1953, e The Lady in the Tower su The Magazine of Fantasy and Science Fiction nel 1959; prove forse ancora un po’ acerbe ma che rivelano tanto le sue potenzialità narrative che la passione per il fantastico, il fantascientifico in particolare, e alcune tematiche peculiari della sua produzione.
Grazie anche al sostegno dei suoi editori e della sua agente, Virginia Kidd, si dedicò sempre più sistematicamente alla scrittura.

Ad inizio anni Sessanta iniziò a lavorare ai cinque racconti, stesi tra il ’61 e il ’69, che compongono The Ship Who Sang, la cui prima edizione originale è del 1969.

Il vero successo che cominciò a farla conoscere tra lettori e addetti ai lavori del mondo della fiction giunse nel 1967, allorché il suo Weyr Search fu pubblicato sulla rivista Analog Science Fiction and Fact, allora diretta da John W. Campbell, racconto grazie al quale vinse nel 1968 il Premio Hugo, prima scrittrice donna a ricevere questo prestigioso premio. Sulla medesima rivista, tra dicembre ’67 e gennaio ’68, fu pubblicata la novella successiva, Dragonrider, che valse all’autrice nel 1969 un altro autorevole riconoscimento, il Premio Nebula.
Benché nati come esperienze a sé, esortata dal suo editore a dare un seguito di maggior respiro alla storia, questi due racconti costituirono la prima parte di Dragonflight, romanzo pubblicato nel 1968 che costituisce il primo libro della sua saga più celebre, The Dragonriders of Pern, che consta di decine tra romanzi e racconti, i più recenti scritti insieme al figlio Todd.

Già nel 1967, tuttavia, era apparso il suo primo romanzo di fantascienza, Restoree, storia di una giovane rapita da alieni che si nutrono di cane umana.
Nel 1969 uscì Decision at Doona, primo di una trilogia completata soltanto negli anni Novanta insieme a Jody Lynn Nye, in cui per la prima volta viene nominata la Federation of Sentient Planets, scenografia e idea che torneranno e verranno citate in tante sue opere fantascientifiche, in riferimento all’organizzazione politico-sociale che si sarebbero dati nel futuro pianeti appartenenti anche a universi differenti.

Poco dopo il divorzio, nel 1970 Anne si trasferì in Irlanda e dovette affrontare alcuni anni difficili dal punto di vista personale, familiare ed economico – per problemi finanziari fu costretta a cambiare spesso casa e città e ad attingere a fondi di beneficenza –, situazione che pesò anche sulla scrittura, che attraversò una fase di stallo.
Dopo essere riuscita a concludere e a far uscire entro il 1971 Dragonquest, soltanto nel 1978 vide la luce The White Dragon, entrambi appartenenti alla saga di Pern.
The White Dragon fu il romanzo che definitivamente la consacrò al successo, vendendo da subito un cospicuo numero di copie ed entrando a quasi dieci anni di distanza nella classifica della rivista Locus dei 33 migliori romanzi fantastici.

Grazie alla notorietà acquisita, le venne richiesto di comporre qualcosa anche per il mercato degli young adult: nacquero così le prime storie che confluirono in The Crystal Singer, primo della trilogia di The Crystal Universe, e i tre romanzi della cosiddetta The Masterharper of Pern, sempre ambientata nel mondo omonimo e che inaugurò la fattiva collaborazione con la casa editrice Atheneum Books.

Gli introiti provenienti dalle ultime pubblicazioni le permisero di acquistare la sua Dragonhold, una tenuta nella contea di Wicklow così chiamata in onore dei suoi amati draghi che le diedero la possibilità di coronare tale sogno, ove visse da allora dedicandosi principalmente alla scrittura e all’allevamento di cavalli, rispondendo alle numerose lettere dei fan e degli amici, partecipando a convention e presentazioni.
Raccogliendo e rielaborando racconti già scritti, dedicandosi a narrazioni nuove da sola o insieme ad altri autori e al figlio Todd, da allora la McCaffrey proseguì a raccontare storie legate al ciclo di Pern e a scrivere altre saghe e libri − ad esempio, per citarne una minima parte, la serie di Ireta, i due cicli che compongono The Talents Universe, che ruota attorno a individui che hanno sviluppato capacità telepatiche e telecinetiche destinati a divenire parte integrante del sistema di connessione di una società interstellare, la saga di Acorna scritta principalmente con Elizabeth Ann Scarborough.

Anne McCaffrey è mancata il 21 novembre 2011 all’età di 85 anni.

Seconda parte

Uno dei progetti che sta attraversando trasversalmente il Connettivismo, in questo periodo di evoluzione del Movimento, muove verso le mappe culturali del cosiddetto mainstream; ovvero dei prodotti culturali fruiti dalla moltitudine nazionale e internazionale, spesso assai poco interessata ai fenomeni di nicchia, o di avanguardia, in cui noi connettivisti abbiamo sempre trovato l’humus necessario affinché le nostre idee nascano, e prosperino, in modo così florido da costituire – questa è la nostra speranza – fonte di nutrimento per noi stessi e le generazioni di sperimentatori future.

In quest’esplorazione del mainstream sappiamo di avere molti autori come punti fermi, fari nella notte in grado di illuminarci sul chi siamo e su cosa possiamo essere nel tessuto del reale; il nostro intento è, ora, cercare di operare una trasformazione alchemica del reale, una mutazione che sia di portata epocale e in grado di aprire scenari nuovi, assimilabili nel futuro. Tra questi autori è bene ricordare un paio di nomi, tanto per dare delle coordinate non esaustive ma, comunque, valide: Ballard e Murakami.

Accanto a loro, mostri sacri della letteratura capaci di far filtrare strisce inquietanti di universi distopici nelle trame del nostro presente, mi piace citare (cito anche io, non sono certo stato il primo a scoprirlo) un nome italiano che indaga con la certosina attenzione di chi sa su quale strada ci stiamo incamminando: Lara Manni. Su Carmilla sta pubblicando da qualche tempo recensioni come questa, dove analizza nello specifico l’influenza delle tradizioni, delle fiabe, sul presente culturale. Lara nel suo articolo parte, appunto, da una fiaba russa – assai simile, come inizio, a Pinocchio – in cui si sublima il desiderio di maternità e paternità di una coppia, che ha fornito lo spunto per il romanzo di esordio di Eowyn Ivey, La bambina di neve, che traspone la storia nel gelo dell’Alaska. Scrive Lara Manni:

L’innesto della fiaba classica in un romanzo contemporaneo, infatti, è una tendenza che interessa non pochi scrittori, fino a diventare – ineluttabilmente – filone editoriale emergente negli Stati Uniti. Qualche tempo fa, Editrice Nord ha pubblicato una raccolta di racconti di Andrzej Sapkovski dal titolo Il guardiano degli innocenti, che è stata salutata con favore dai lettori di fantastico italiani più per il riferimento al videogioco che ne è stato tratto che per la derivazione fiabesca. Il protagonista, Geralt di Rivia, è un Witcher, uno strigo che combatte mostri in una serie di quest replicabili all’infinito. Lo strigo vince sempre, ha un suo codice etico, sufficiente cinismo, molto orgoglio, abbastanza carnalità da intrattenersi con fanciulle di passaggio. E soprattutto agisce all’interno di fiabe e miti: c’è la rivisitazione al nero di Biancaneve, si accenna alla fuga di Cenerentola dal ballo, Raperonzolo diviene l’emblema di un culto femminile proibito.

Ecco, il compito dei personaggi del fantastico cambia connotati, in questo periodo storico, perdendo un po’ delle caratteristiche canonizzate del genere, ovvero lo stacco dal reale per farci volare, portarci in una capsula astrusa dove il reale appare un continuum lontano, irraggiungibile; la tendenza di adesso tende, invece, a cercare di tenersi ben più saldi su quello che abbiamo attorno, lo stacco di fantasia non va più in orbita ma sembra in grado di contaminare il nostro mondo tattile, operando un’invasione che è ben più reale e fattibile, e ciò è per certi versi un metodo ancor più rivoluzionario del vecchio modo di intendere il genere: è il colare dell’universo fantastico su ogni poro del reale.

È un po’ come investire di nuova missione gli autori del nostro genere preferito: non più fuga ma incursione sul mondo in cui tutti si muovono. Stiamo accendendo continuamente lumini lungo un sentiero che pensavamo non fosse il nostro; ci stiamo accorgendo di essere in tanti a farlo, davvero pronti a fare qualcosa di nuovo, soltanto vivendo l’usuale.

Analizzando su Carmilla due pubblicazioni recenti – 1Q84 di Murakami Haruki (Einaudi) e 22/11/63 di Stephen King (Sperling&Kupfer) – Lara Manni vota come soluzione per traghettare la letteratura del fantastico fuori dal ghetto editoriale l’invasione/intrusione del mainstream:

“[…] Se c’è una via per sfuggire alla nicchia, alle costrizioni editoriali, al malinteso post-tolkieniano, è proprio quella di sfumare i confini, o di contaminare, dall’interno, il mainstream. Facendo colare un mondo nell’altro, ricordava King: come liquido dal fondo di un sacchetto di carta.”

Soluzione che condivido e sottoscrivo.
Ma, a livello operativo, come fare per “conquistare” il mainstream?

In Italia, noi addetti al fantastico siamo malati cronici di scenario e ambientazione. Qualche volta ci riesce bene (uno su tutti, Dario Tonani con Infect@ & Co.) ma è ovvio che non basta. Dimentichiamo, o curiamo poco, i personaggi e le tematiche col rischio di produrre una grande quantità di contenitori e una bassa qualità di contenuti (per non far di tutta l’erba un fascio, a scanso d’equivoci, va citata Clelia Farris con Nessun uomo è mio fratello, romanzo sull’impunità vincitore del Premio Odissea 2009). Spesso sorvoliamo sullo stile e la lingua.

C’è un romanzo – mainstream e italiano – che nei punti deboli storici del patrio fantastico ha le sue fondamenta: Accabadora, di Michela Murgia, Premio Campiello 2010. In una storia che parte a ridosso della fine della Seconda Guerra ci sono personaggi con la “P” maiuscola (profondi, verosimili, tridimensionali), una lingua molto curata senza essere eccessivamente letteraria e grandi temi (morte ed eutanasia, condizione femminile). Lo scenario, la Sardegna e il Piemonte tra i ’50 e i ’60 del secolo scorso, viene filtrato nella descrizione degli spazi domestici, quasi un’estensione della psicologia dei personaggi. E per dirla tutta, c’è anche un pizzico di fantastico – l’intangibile, il misterioso, il sesto senso – declinato sotto forma di gotico rurale un po’ più metafisico di quello di baldiniana memoria.

Al di là dei mostri sacri del passato (Buzzati-Calvino-Levi) e del presente (Evangelisti) – esempi diametralmente opposti, dal maistream al fantastico e viceversa – nel futuro è giusto aspettarsi in “fondo al sacchetto di carta” gli autori mainstream nella veste di salvatori del fantastico o auspicare che l’invasione parta dall’altro lato della frontiera?