A chi segue le vicissitudini del mondo software, sia lato programmazione e/o sistemistico che lato utente finale, sarà capitato di assistere sempre più spesso a dibattiti sul software libero vs software proprietario. In sostanza, gli operatori e gli appassionati del mondo digitale si dividono in due categorie: chi sceglie programmi e sistemi operativi blindati, di cui si è semplici utenti o poco più e di cui si può diventare comunque degli specialisti (vedi per es. Microsoft, Windows, Apple, iPhone etc.) oppure chi diventa paladino dei prodotti scritti e gestiti con licenza opensource, ovvero software non blindato e accessibile a chiunque abbia la capacità di modificare e scrivere codice (Linux, Openoffice, Firefox, Android).
Tux, the Linux penguin (Photo credit: Wikipedia)
Image via CrunchBase
La macro differenza tra software proprietario e software opensource, libero, è fondamentalmente quella esposta qui sopra. Nell’ambito del software libero esistono poi sofisticazioni maggiori, tali da permettere di costruire del codice proprietario su licenze opensource; Google, per esempio, parte da una base free per costruirci sopra del proprio codice, chiuso. Lo stesso avviene nel mondo Linux, dove le varie distribuzioni presenti non sempre aderiscono completamente allo spirito free del celebre sistema operativo aperto; però, in buona sostanza, laddove si parla di software libero si può affermare che la possibilità d’incappare in qualche prodotto che fa cose alle vostre spalle, di cui non ve ne renderete mai conto, si assottiglia notevolmente, proprio perché al controllo c’è una comunità attenta alla programmazione, che sa leggere cosa fa un programma e che quindi può modificarlo all’uopo.
Repubblica.it nei giorni scorsi ha dedicato ben due articoli al mondo opensource, che nasce dalle lotte libertarie (non certo liberiste) degli anni ’60 nei campus universitari degli USA. Il primo articolo da cui ho preso spunto è quindi qui, dove si pone l’accento sulla grossa chance che il software libero sta avendo nel mercato dei sistemi operativi e non solo; punti di forza notevoli quelli dell’opensource, che passano per le alte performance, per l’affidabilità e la sicurezza, livelli di alta qualità che riescono spesso a convincere l’utente finale sulla convenienza economica nel passare a questa filosofia digitale: perché i prodotti totalmente opensource sono pressoché gratuiti, mentre quelli sviluppati sul free software sono spesso gratuiti o al massimo costano davvero poco se confrontati con i prodotti blindati, quelli proprietari, che costano sensibilmente di più (vedi licenze di Windows, per esempio, o di Microsoft Office).
PIÙ LA SOCIETÀ digitale evolve, più l’opensource, il modello di distribuzione libera e gratuita del software e del suo codice sorgente reso popolare dalla distribuzione Linux, guadagna fiducia e attenzione. Una delle ultime previsioni della società di analisi Gartner dedicata a questo mercato ha indicato che, nel 2016, il 99% delle principali aziende utilizzerà almeno un software opensource (era il 75% 2010). E, il più delle volte inconsapevolmente, lo stesso stanno facendo oggi milioni di persone.
I vantaggi sono innegabili. Il software opensource è già pronto, economico, modulare. Ma è anche di qualità. Secondo una ricerca pubblicata da alcuni giorni fa dalla società di analisi software Coverity, i software opensource hanno anche meno difetti dei software con codice proprietario. La ricerca ha confrontato, con procedure automatiche, 45 software opensource e 41 software a “codice chiuso” rilevando come, nel primo caso, la densità di difetti (ossia il numero di difetti riscontrati suddiviso per le dimensioni del codice con cui è programmato il software) sia pari, in media, a 0,45, mentre quella dei software proprietari sia pari a 0,64. Poco importa che, paragonando software dalle dimensioni equivalenti, la forbice diminuisca quasi a scomparire. Importante è che la ricerca definisca quanto tutti sapevano da tempo: il software opensource è progettato con qualità.
Questo ci dice il suddetto articolo di Repubblica, che continua:
Un bene per l’industria. Per dirla con Mark Shuttleworth, il milionario fondatore di Ubuntu, una delle più diffuse versioni di Linux, il software opensource “accresce l’innovazione tecnologica, ne consente l’accesso anche alle zone periferiche del mondo e permette ai programmatori di esprimere al massimo le loro capacità”. Il principio riceve conferme anche dall’ampia diffusione di progetti a codice aperto che, senza clamori, sono alla base di decine di attività quotidiane: quando usiamo il computer, quando navighiamo su Internet, quando usiamo lo smartphone, quando guidiamo un’automobile.
L’opensource ci circonda. Usiamo software opensource quando navighiamo su Facebook, su Twitter, su Google, su Wikipedia. Per dirne una, Facebook probabilmente non sarebbe nato se Mark Zuckerberg non avesse avuto a disposizione il linguaggio di programmazione PHP, basato su standard aperti e rilasciato con licenza libera così da poter essere utilizzato senza dover pagare diritti. Ancora oggi l’intera infrastruttura di Facebook si basa su software a codice aperto, software che chiunque può scaricare, installare ed utilizzare per i propri servizi.
Non stupisce che l’ambiente di principale utilizzo di software opensource sia Internet: le tensioni libertarie maturate dai movimenti americani degli anni Sessanta, in cui affonda le radici il pensiero teorico dell’opensource, hanno segnato anche la nascita della grande rete (“io sono nato tra una marcia di protesta e un’occupazione universitaria”, dirà il fondatore di Linux, Linus Torvalds). Se navighiamo il Web usando Firefox o Chrome, il browser progettato da Google, stiamo usando due prodotti opensource, che da tempo erodono vistose quote di mercato a Internet Explorer facendolo scendere al di sotto del 50% nonostante il navigatore sia preinstallato nel 90 per cento dei computer del mondo.
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