2035: il mondo intero è diventato un’unica Città, un “un oceano virtuale, una giungla digitale” dilaniata dal rumore. L’anno della Singolarità è trascorso, l’uomo si è altamente ibridato con la tecnologia.

È questo lo sfondo di A City To Make Me, cortometraggio progettato e diretto da Ryan Miller, che mette in scena un futuro distopico non troppo lontano e irreale, lacerato da conflitti sociali, divari economici, disoccupazione, gestito dietro le quinte dallo schiacciante potere di multinazionali delle telecomunicazioni e della tecnologia. Sarà il protagonista, David Phoenix, che tenta di sopravvivere a questa Città dispotica che tutto fagocita, ad avvertire il lato oscuro della nuova tecno-società: se la Rete a cui sono connessi i nostri innesti cerebrali è al contempo controllata da influenti oligarchie, i cui interessi sono soltanto economici e politici, chi governa davvero il cyberspazio e il pensiero, la coscienza umana, secondo il proprio vantaggio? Fino a che punto siamo influenzati o manovrati nel nostro agire? L’uomo ha ancora la possibilità di ribellarsi e resistere? Comprendendo il rischio che l’umanità sta correndo, David diventa un agente transumano in lotta per la rivoluzione e contro il controllo della mente e dell’informazione.

Realizzato grazie alla raccolta di fondi tramite Kickstarter e alla distribuzione su Vodo.net – strumenti che stanno permettendo a giovani e capaci artisti di trovare il denaro necessario per le proprie produzioni e canali di diffusione alternativi –, il corto sarà presto visibile in streaming sul web, nella speranza di attirare sufficiente attenzione per poterlo sviluppare in futuro in un lungometraggio maggiormente articolato e complesso.

Ryan Miller non è nuovo a queste iniziative, essendo da sempre fortemente interessato a produzioni impegnate, che sviscerano la conflittualità sociale e i rischi dei media e della tecnologia, per dare voce a una possibile nuova condizione umana protesa al futuro e al progresso, ma non a scapito della salvaguardia della dignità e della libertà degli esseri umani.

A City To Make Me si incentra su alcune idee cardine essenziali, come spiega lo stesso Miller.
In primo piano vi è la tecnologia e una profonda riflessione sul suo ruolo sociale e sui cambiamenti, positivi e negativi, che sta arrecando con sé − valutazioni che spesso rimangono trascurate o marginali, a causa del suo sviluppo a velocità esponenziale. In particolare, l’aspirazione alla perfetta fusione uomo-tecnologia, che darebbe vita a un essere umano superiore, nasconde parecchie insidie, non da ultimo il fatto che non tutti – forse molto pochi – avranno capitali sufficienti per poter accedere a risorse e mezzi necessari per tale cambiamento. La Singolarità e il transumano sarebbero tali, quindi, solamente per coloro che potranno permetterselo.
Questo produrrebbe divari sociali ancora più profondi di quelli odierni, che potrebbero convogliarsi verso una vera e propria guerra globale di classe – sulla scia di quanto già iniziato in questi anni in tutto il mondo, come dimostra la protesta del movimento Occupy.
Miller per primo sottolinea che una simile posizione non è affatto contro il progresso tecnologico, ma è un’esortazione a osservare i cambiamenti con la necessaria consapevolezza, senza cadere nelle trappole edulcorate tese in maniera subdola dal martellamento mediatico.
Il futuro prospettato dal cortometraggio mette in guardia anche verso un’umanità che viene assimilata e assorbita in una rete globale per gli impianti innestati cerebralmente: tale Rete tuttavia non è un luogo neutrale, ma il core business di chi ne detiene e gestisce gli interessi, che sfrutta la virtualizzazione della coscienza umana e dell’esperienza individuale riducendole a un mero fattore economico.
“Stiamo contribuendo a creare una cultura mercificata della coscienza?” si chiede il regista. “Chi ci guadagna davvero?”
Socialmente e culturalmente stiamo già diventando dei consumatori ipnotizzati da un eccessivo bombardamento visivo; le nostre vite mediate e uploadate nei sistemi virtuali e nei social network stanno divenendo nulla più che un paradigma del virtuale che aziende quotate in borsa impiegano e indirizzano per aumentare i propri profitti.

A City To Make Me è un film che mette in campo grandi idee, che cerca di mostrare come la marcia verso un futuro transumano possa essere la più grande sfida esistenziale, ma anche il più grande rischio, per l’umanità del XXI secolo.

“Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.”
(George Orwell, 1984)

George Orwell - 1984

L’acceso dibattito internazionale sull’editoria digitale e le proteste contro le proposte legislative tese alla sorveglianza e alla censura del web sono un segnale, uno dei più recenti, del cambiamento epocale che ci sta coinvolgendo, la transizione verso l’età digitale, che vedrà ogni tipo di contenuto e informazione affidato esclusivamente a supporti informatici, con conseguenze che spazieranno dal vivere quotidiano ai rapporti sociali.

La rapidità con la quale ci stiamo inoltrando in questa nuova epoca non dovrebbe far sottovalutare problematiche come la conservazione di tutti questi dati, la loro organizzazione (tema sul quale recentemente sono usciti diversi interessanti articoli), nonché soprattutto la facilità di alterazione delle informazioni preservate solo digitalmente.

In realtà, l’uomo ha sempre avuto a che fare con il problema della salvaguardia e della trasmissione del sapere. Il supporto per la forma scritta, ad esempio, ha una storia millenaria, che risale alle tavolette d’argilla incise di glifi cuneiformi, ai rotoli di papiro, ai codici di pergamena, fino alla carta e alla stampa. Un patrimonio che ci è pervenuto parzialmente a causa del deterioramento del supporto stesso o di eventi calamitosi, in conseguenza a scelte di valore di un’opera rispetto a un’altra, e molto spesso attraverso trascrizioni successive − e di frequente il testo originario, volontariamente o meno, veniva sbagliato, interpretato, modificato.

Se per l’essere umano è più che naturale tanto ricordare quanto dimenticare (si pensi a come tale concetto sia reso in stupefacente sintesi simbolica nei due dipinti di Salvador Dalì, La persistenza della memoria e La distruzione della persistenza della memoria), è altrettanto fondamentale che storia e cultura siano gelosamente custodite.

Ai nostri giorni persiste innanzitutto la minaccia del deterioramento o scomparsa dei record digitali e dei relativi supporti. Mantenere e sviluppare archivi informatici, infatti, non è gratuito né del tutto sicuro: ciò che si può digitalizzare, si può altrettanto facilmente distruggere. Se per qualche motivo interi archivi digitali di biblioteche, redazioni, case editrici, cinematografiche o musicali, ma anche piattaforme web, chiudessero o cancellassero tutti i loro file – banalmente per un problema legato al provider di servizi o per motivi economici che non permettono di mantenere oltre la propria attività – verrebbero meno in un attimo interi segmenti delle nostre vite (si pensi al caso italiano di Splinder), ma soprattutto parti fondamentali della storia e della conoscenza.
D’altra parte, anche conservare i dati su supporti magnetici o informatici si dimostra efficace solo in parte, dal momento che i materiali a disposizione sono comunque degradabili, benché a medio-lungo termine; inoltre gli strumenti per la lettura di tali formati divengono rapidamente obsoleti e inutilizzabili (paradosso che affligge addirittura il Pentagono e la NASA, definiti “cimiteri di informazioni perdute”).
Un timore, l’oblio della memoria e del passato, che si avverte in Anathem di Neal Stephenson, romanzo in cui vengono presentati due estremi opposti: una comunità di scienziati, rinchiusi in una sorta di inaccessibile e granitico convento sul pianeta Arbre, che tendono al recupero delle potenzialità della propria mente, contrapposti al modus vivendi dei civili, guidato da un’esasperazione della tecnologia e dello short term.

La digitalizzazione della cultura e dell’informazione, persino dei propri dati personali, ha iniziato inoltre ad affidarsi non solo all’hardware, ma si sta spostando in maniera massiccia verso il cloud computing, sistema che se da un lato garantisce il vantaggio di una condivisione immediata di illimitate informazioni con milioni di persone, da un altro, oltre a mettere seriamente in discussione i protocolli di sicurezza e della privacy, è estremamente fragile, manipolabile, cancellabile.
Mettersi nelle mani di immensi e potenti servizi centralizzati, già oggi multinazionali con interessi globali, potrebbe essere rischioso. Inevitabile pensare a 1984 di George Orwell, dove Winston Smith è incaricato di correggere libri e articoli di giornali già pubblicati o ritoccare la storia scritta, apportando modifiche tali da rendere attendibili le previsioni e le azioni dal Partito, alimentandone la fama di infallibilità.

La facile contraffazione e rielaborazione dell’informazione, che nelle sue estreme conseguenze diviene privazione della libertà individuale e del libero arbitrio, perdita dell’identità propria, storica e sociale, non è così remota, proprio perché una volta che vecchi e nuovi archivi saranno memorizzati esclusivamente online e in sistemi cloud unificati, la possibilità di modificarli diventa alquanto semplice e incontestabile, soprattutto se vengono meno altri termini di confronto, conservati su altri supporti o allocati altrove. In questa maniera, porzioni intere del passato possono venire definitivamente cancellate o alterate, sacrificate alla logica del profitto, della censura, della sopraffazione; gli individui precipiterebbero in una realtà di sostanziale ignoranza, poiché altri deciderebbero cosa e in quale modo sarebbe lecito conoscere qualcosa.
Se persino la mente umana fosse, poi, parzialmente o del tutto collegata a simili sistemi centralizzati, anche quanto in essa preservato potrebbe subire facilmente un simile trattamento – si pensi agli scenari di Johnny Mnemonico di William Gibson, per esempio.

Problemi che riguardano la sfera individuale e sociale, quanto la conservazione di tutti gli aspetti della nostra civiltà, dalla letteratura alla scienza e alla storia, e che hanno spronato la nascita di commissioni governative, fondazioni private e associazioni filantropiche di intellettuali (la nota Long Now Foundation, per citare un esempio), alla ricerca di risposte a preoccupazioni ancora sottostimate: sommersi da una mole sovrabbondante di informazioni, molte superflue o inutili al di là dell’immediato, stiamo ancora cercando di risolvere l’arcano dilemma di proteggere le nostre memorie e la nostra libertà di pensiero, di preservare testimonianze autentiche della nostra stessa esistenza anche nel più lontano futuro.