Sul sito ufficiale dedicato a Philip K. Dick, precursore del nostro immaginario, gli eredi dell’autore californiano hanno pubblicato una lettera inedita indirizzata a Jeff Walker della Ladd Company, una delle società che parteciparono alla produzione di Blade Runner. La lettera, che trasmette un entusiasmo contagioso, si segnala come documento incontestabile del livello di gradimento che il lavoro di Ridley Scott seppe guadagnarsi da parte dell’autore che ne aveva fornito l’ispirazione, oltre che del punto di vista di Dick sulla fantascienza di quegli anni.

Suscita una certa emozione leggerne i passaggi, perché la lettera testimonia anche il livello di coinvolgimento a cui giunse Dick semplicemente guardando uno spezzone di Blade Runner, trasmesso durante un servizio che ospitava anche un’intervista a Harrison Ford all’interno di un programma sul cinema mandato in onda dall’emittente locale Channel 7. L’autore rimase sinceramente impressionato dall’estetica di Ridley Scott, apprezzò il lavoro dei diversi artisti e tecnici coinvolti nell’adattamento cinematografico di Do Androids Dream of Electric Sheep? e infine si spinse a profetizzare, sull’onda dell’entusiasmo, una rinascita della fantascienza che negli ultimi anni – secondo il suo giudizio, forse un po’ troppo severo – era “scivolata in una morte monotona, diventando “fragile, derivativa e stantia”.

Il documento fa la sua apparizione nell’anno del trentesimo anniversario dell’uscita nelle sale del capolavoro di Scott, oltre che della prematura scomparsa di Dick che abbiamo già avuto modo di commemorare, sia su HyperNext (in tre puntate: prima, seconda e terza) che in maniera più organica sulle pagine di Delos. Dick seppe cogliere le sfumature di un’opera complessa e, in maniera istintiva, grazie alla sua spiccata sensibilità, riuscì anche ad anticipare l’impatto che sia dal punto del linguaggio che dei contenuti il film avrebbe esercitato negli anni a seguire, sulla letteratura di genere, sul cinema tout-court ma anche sulle forme d’arte più varie (“potreste aver creato una nuova forma, unica nel suo genere, di espressione artistica, qualcosa di mai visto prima, scrive nella sua lettera a Walker). Dopo le esperienze del cyberpunk e il successo delle declinazioni di temi intrinsecamente fantascientifici secondo gli stilemi della letteratura noir e hard-boiled, è difficile smentire le sue previsioni. E gli echi che se ne riescono a cogliere tuttora nelle opere più disparate e in particolare in capolavori della letteratura di SF (come la trilogia di Kovacs di Richard K. Morgan), del cinema (si pensi a Strange Days di Kathryn Bigelow), dell’animazione (Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, da un manga di Masamune Shirow), dei videogiochi (Deus Ex di Warren Spector, prodotto dalla Eidos Interactive) e della televisione (in misura palese nella straordinaria epopea spaziale di Battlestar Galactica, reinventata da Ronald D. Moore e David Eick), stanno a dimostrare che la sua influenza è ben lungi dall’estinguersi.

Per consentire un accesso diretto ai contenuti della lettera di Dick, la pubblichiamo in una traduzione integrale subito dopo il salto. (altro…)

La lavorazione di Blade Runner, come racconta dettagliatamente Paul M. Sammon nella sua storia del film Future Noir: The Making of Blade Runner (edito in Italia da Fanucci come Blade Runner: Storia di un Mito, ormai purtroppo finito fuori catalogo), fu complessa e travagliata. A partire dall’acquisto dei diritti cinematografici di Do Androids Dream of Electric Sheep? (il romanzo di Philip K. Dick del 1968 da cui tutto ebbe inizio, da noi tradotto come Il cacciatore di androidi) da parte di Hampton Fancher, il copione passò attraverso diverse fasi di scrittura e riscrittura. Il risultato finale del 1982 è l’esito di un lungo processo di elaborazione che vide contribuire in maniera decisiva il summenzionato Fancher e Ridley Scott (sua l’idea di sviluppare l’estetica noir futuristica del film a partire da Nighthawks di Edward Hopper e dal fumetto The Long Tomorrow di Dan O’Bannon e Moebius), David Webb Peoples (arruolato per sistemare i dialoghi e ideatore del termine “replicante”), Syd Mead (artista concettuale tra i più influenti al mondo) e Lawrence G. Paull (autore delle scenografie), Douglas Trumbull (già artefice degli effetti speciali per 2001: Odissea nello Spazio, Incontri ravvicinati del terzo tipo e Star Trek, recentemente tornato all’opera nell’ambizioso The Tree of Life di Terence Malick), Jordan Cronenweth (votato dai suoi colleghi come uno dei dieci direttori della fotografia più influenti di tutti i tempi) e Vangelis (autore della colonna sonora del film).

Un team di questa levatura poteva produrre solo un disastro memorabile o una pietra miliare. Per fortuna ci è andata bene e oggi, malgrado gli stenti della prima distribuzione nel circuito delle sale, Blade Runner è riconosciuto pressoché all’unanimità per quel capolavoro che è, dentro e fuori dal genere. Ma prima di arrivare alla pellicola, le difficoltà produttive di cui facevamo menzione si sono riflesse nella lunga sequenza di sceneggiature preparate per il film. Mechanismo, Dangerous Days, Android: a partire dalla ricerca del titolo, non fu un lavoro semplice. Alla fine la produzione optò per Blade Runner, rilevandone i diritti da un semisconosciuto romanzo di Alan E. Nourse apparso da noi come Medicorriere e da un soggetto originale di William S. Burroughs, entrambi senza punti di contatto con la pellicola che Ridley Scott si apprestava a girare.

A quale punto della lavorazione si decise di cambiare l’ambientazione del romanzo ispiratore di Dick non è dato saperlo. Perché è vero che ormai Los Angeles, Novembre 2019 è di diritto una componente imprescindibile del nostro immaginario sul futuro, un set di coordinate spazio-temporali che fa parte del bagaglio culturale di ognuno di noi, ma è altrettanto vero che Il cacciatore di androidi era ambientato in un’altra città californiana, con ben altra storia alle spalle rispetto alla città degli angeli: San Francisco. Di sicuro fin dall’inizio Scott aveva in mente uno scenario urbano verticale, più simile a New York che a Los Angeles. Paradossalmente, l’architettura della Bay Area si sarebbe prestata perfino meglio rispetto allo sprawl di L.A. per gli sfondi che Scott aveva in mente, ma forse fu lo scenario da nebulosa infernale, assediata dalle raffinerie di Torrance ed El Segundo, a innescare l’associazione con i polizieschi di Raymond Chandler verso cui la trama del film è in forte debito (Rick Deckard è una sorta di Philip Marlowe del futuro, e l’olio nero è un elemento d’ambiente nelle sue storie, a partire da Il grande sonno) e ad avere così la meglio, spostando il baricentro geografico del film verso la California del sud.

Eppure… San Francisco è una città straordinaria, set ideale per una quantità innumerevole di storie: da Jack London a Cory Doctorow, passando per Jack London, Fritz Leiber, Jack Kerouac, William Gibson e tanti altri. Ho provato a renderne conto, limitandomi a una manciata di titoli di spicco, parlandone a proposito di Little Brother sulle pagine di Next Station. E allora: come sarebbe stato Blade Runner se la produzione avesse deciso di mantenere l’ambientazione originaria prescelta da Dick?

Se l’è chiesto come noi Britta Gustafson, un’appassionata di fotografia, paesaggi urbani, arte e matematica, che ha anche cercato di dare una risposta allestendo un tour virtuale di questo Blade Runner alternativo, tracciando un parallelo tra il romanzo di Dick e il film di Scott e soprattutto tra i rispettivi luoghi. Il risultato è su Flickr (ne siamo venuti a conoscenza attraverso io9) ed è davvero degno di nota.

Buona escursione!

Westin St. Francis Hotel at night, di Kumasawa

Opening Night Simulcast, di pbo31.

Fake Eagles, di freeside510.

Prendendo spunto dalle riflessioni sugli androidi e replicanti operate da Oedipa_Drake, m’inserisco nella discussione confermando tutte le sue suggestioni, gli spunti che portano in misura diversa alla definizione, in sostanza, del postumano.

La mia intenzione, ora, è inserire nel thread che spero si origini da quelle righe seminali, un nuovo argomento, in qualche modo affrontato da X – pur se non esaustivamente dal punto di vista postumano – quando su NeXT 13 scriveva il suo articolo Paul Krugman: dalla frontiera del commercio.

Parliamo tutti, chi più chi meno, all’interno del Movimento e non solo, di futuro, di come la tecnologia e le semantiche scaturite da essa potranno cambiare la nostra vita, allungandola, fortificandola, diversificandola. Forse però dimentichiamo un particolare che, in questi momenti di crollo dei modelli finanziari, può generare uno stop o peggio, un’involuzione delle nostre speranze: la crisi delle fonti economiche. Sappiamo che alla base del progresso c’è, sostanzialmente, la disponibilità di ingenti fondi da investire, capitale che ora o nel futuro potrebbe venire a mancare, per rivoluzioni finanziarie o politiche; il baratro di un nuovo Medioevo è sempre presente, è lo spettro che agita i sonni di chi rivolge la sua attenzione ai nuovi giorni. Le vie per arrivare a un tale scenario sono molteplici; se le necessità energetiche, per esempio, dovessero portarci all’esaurimento delle fonti petrolifere, senza che nel frattempo sia stata trovata una valida alternativa, cosa succederebbe alla nostra civiltà? Stiamo trasferendo tutto il nostro sapere, buona parte delle nostre vite sociali, su supporti che funzionano con l’elettricità; senza di essa, perderemmo una cospicua percentuale della nostra vita attuale e a quel punto, come si potrebbe parlare di nuova umanità o, per rimanere ancorati ai nostri modelli antropologici, di avvenire, di progresso? Ci troveremmo tutti, all’improvviso, precipitati in un baratro di pure dimensioni umane, lontani dai nostri migliori sogni di espansione fisica, cerebrale, di trasferimento della coscienza su altri tipi di carapaci.

Un altro scenario che potrebbe portare a un netto ridimensionamento del futuro è una crisi finanziaria dettata da mancanza di liquidità, da una presa di coscienza che il patrimonio mondiale ha comunque un valore finito, può scatenare un’altra versione di Medioevo dove le lotte sociali, le guerre civili, i disastri culturali e ambientali susseguenti potrebbero portare a un’involuzione, dove soltanto un’oligarchia potrebbe permettersi le cure migliori, la vita migliore, i giorni migliori; spostando un po’ più in là il ragionamento, potrebbero essere loro i postumani d’elite.

Queste espresse sono solo le ultima opzioni di una pletora di distopie possibili, tutte terrificanti e apocalittiche specialmente se dovessero accadere in concomitanza (ipotesi tutt’altro che peregrina) in cui l’argomento progressista degli androidi, del mind uploading e delle IA sarebbe vanificato da una mancanza finanziaria, reso soltanto un breve sogno dell’umanità, dimenticato nel breve volgere di poche generazioni.

Lo sforzo più grande che dobbiamo fare ora, noi esseri occidentali del secondo decennio del terzo millennio, è duplice: da un lato alimentare la fornace del sogno, fare che diventi sempre più bello e possibile, ma anche vigilare e operare nel presente, nell’ambito delle nostre limitate possibilità e cercando di non remare contro, affinché i fondamenti di questi sogni rimangano stabili, fattibili. Dipende anche da noi se tutto quello che auspichiamo diventerà davvero reale, se davvero consegneremo il nostro mondo a qualcuno che saprà svilupparlo meglio di noi perché avrà potenzialità migliori delle nostre, raccogliendo il nostro testimone che ora è saldamente nelle nostre mani.

La recente lettura del romanzo di Ted Chiang, Il ciclo di vita degli oggetti software, mi ha sollecitato una serie di interrogativi su quanto sia preparato davvero l’uomo a confrontarsi in maniera profonda con la tecnologia più avanzata e, in particolare, con l’Intelligenza Artificiale.

Il progresso tecnologico non solo ha cambiato il percorso dell’evoluzione della specie umana, ma anche il nostro modo di relazionarci con quanto ci circonda, sia dal punto di vista pratico che in senso etico-filosofico, ed è stato talmente rapido che l’uomo si è trovato spesso costretto ad accettarlo e a prenderne parte come un dato di fatto.
L’avvento di macchine intelligenti (le cosiddette IA forti), tuttavia, costringerebbe a un esame ben più responsabile sul loro rapporto con l’essere umano, poiché sarebbe una rivoluzione che potrebbe minare il senso stesso del suo essere, della sua esistenza e dell’etica. Come dichiara il professore Giuseppe Longo in questa esaustiva disanima: “La crescente diffusione dei robot in tutti i settori della società ci obbliga a considerare il rapporto di convivenza uomo-macchina in termini inediti, che coinvolgono in primo luogo l’etica. Affrontare questi problemi è importante e urgente”.

La riflessione su queste problematiche non è soltanto materia per la fantascienza, ma ha coinvolto strettamente tanto la scienza che la filosofia, in particolare le neuroscienze, la neurofenomenologia e il cognitivismo, facendo riemergere, benché in una prospettiva inedita, i più classici dei quesiti filosofici, quali il rapporto mente-corpo e il senso ultimo dell’uomo stesso. Il predominio delle due correnti principali nella seconda metà del secolo scorso, funzionalismo e computazionalismo, oggi è oltrepassato a favore di tesi che si rifanno principalmente all’apporto del neuroscienziato Antonio Damasio e che rimarcano come il cervello non possa essere inteso quale struttura a sé né insieme di funzioni e algoritmi, bensì che esso “senza il corpo non può pensare”, intendendo per corpo non solo quello biologico individuale ma anche l’intero contesto spazio-temporale in cui è immerso.

Questa speculazione è fondamentale per cercare di rispondere alla domanda “Se i robot dovessero un giorno diventare intelligenti e sensibili (quasi) quanto gli umani, potremmo continuare a considerarli macchine?”, per citare di nuovo Longo. Interrogativo che potrebbe essere rovesciato menzionando il titolo di uno dei più celebri romanzi di Philip K. Dick, che Ridley Scott avrebbe sviluppato come base letteraria per il suo capolavoro, Blade RunnerMa gli androidi sognano pecore elettriche?

In primo luogo è necessario ricordare che l’uomo, per la sua intrinseca natura psico-emotiva, tende a investire quanto ha davanti di proiezioni emozionali e affettive, interpretando i segnali dell’interlocutore come sentimenti o risultati di una coscienza tipicamente umana, anche di fronte a una macchina che, per quanto evoluta, ripete una mera emulazione comportamentale elaborata in base agli input ricevuti e a uno schema inoculato inizialmente dall’uomo stesso – un termine utilizzato per definire tali robot, infatti, è anche replicanti, a sottolineare la loro natura di copia. Un simile tipo di intelligenza, artificiale appunto, non sarebbe in grado né di vera comprensione e consapevolezza, né di riproporre le peculiarità del pensiero umano, che spesso è tutt’altro che lineare ma segue percorsi contraddittori, irrazionali, creativi. Altro problema fondamentale sarebbe quello della moralità dell’automa, che anche in questo caso prende le mosse da uno spunto letterario, le Tre Leggi della Robotica declinate da Isaac Asimov, ma si connota di sottigliezze assai più complesse e delicate, come approfondito accuratamente da Colin Allen, filosofo e cognitivista americano, le cui linee guida teoriche sono riassunte in questo interessante articolo.
Il fatto che l’IA non sia identica all’essere umano, tuttavia, non elude il problema se ad essa, una volta diventata autonoma nel suo sviluppo evolutivo “bio-culturale”, debbano essere riconosciuti specifici diritti e doveri e una dignità paritaria a quella dell’uomo.

Una perplessità su queste ricerche è che prendono come punto di partenza il mondo odierno, così com’è, e supponendo l’IA forte un qualcosa di già concreto ed esistente; a mio avviso, invece, bisognerebbe analizzare il suo ruolo anche in rapporto a quello che sarà l’uomo del domani, quando appunto l’IA potrà essere davvero attuabile e realistica.
Speculando in ottica futura, la società umana convivrebbe non solo con l’IA, ma, ad esempio, con il postumano − essere umano altamente ibridato con la tecnologia, talora fino al punto da essere assai simile a una macchina −, con cloni dell’uomo stesso, avrebbe accesso al mind uploading e a tecniche di prolungamento indefinito della vita.
In uno scenario analogo l’umanità potrebbe ancora considerarsi tale?
Ecco forse che, oltre alla riflessione filosofica sul senso dell’uomo e alla ricerca di un’enunciazione della roboetica, è altrettanto importante la definizione di un nuovo vocabolario e di un nuovo pensiero, che sia non solo storico ma anche evolutivo, e soprattutto sappia andare oltre il dualismo tra ciò che è umano e ciò che non lo è, superando finalmente l’antropocentrismo.

Il confronto con la macchina è stato in grado sia di riavvicinare discipline eterogenee, quali scienza e filosofia, sia di ridare vigore al processo di autoanalisi dell’uomo.
Tutte le domande e gli argomenti che ne scaturiscono, che siano suggeriti dalla fantascienza o dai risultati del progresso, sono però ancora da analizzare con attenzione in tutti i loro possibili risvolti. Sostanzialmente, ad oggi, una risposta condivisa non è stata ancora raggiunta.

Un altro quesito basilare, tuttavia, che sta a monte di tutte queste riflessioni, finora non ha ricevuto che risposte laconiche o nulle: fino a che punto l’hybris dell’uomo può spingersi nello scavalcare e nel modificare le leggi della Natura? Egli ha il diritto di arrogarsi il ruolo di novello demiurgo e costruire macchine senzienti a lui simili o addirittura esseri viventi?