Speciale PKD (1 di 3): Il mondo che Dick creò

3. “Putrìo, putrìo!” disse il piccolo Manfred Steiner. Come rilevato da importanti commentatori, l’opera di Dick costituisce un corpus unico nella letteratura americana della seconda metà del Novecento (cfr. C. Pagetti, Uomini e androidi). L’affermazione è comprovata dall’ormai inquantificabile numero delle influenze, più o meno dirette, esercitate dall’autore californiano su altri protagonisti del panorama culturale: non solo i cyberpunk, che non hanno mai nascosto la loro ammirazione per lui (soprattutto con gli elementi più scalmanati del gruppo, Rudy Rucker e John Shirley su tutti), ma anche tra i loro precursori (i citati Jeter e Powers, che furono frequentatori dell’autore nei suoi ultimi anni) e tra gli avant-pop Dick può vantare agguerriti ammiratori, come Jonathan Lethem e Steve Erickson. La sua influenza è inoltre riscontrabile in Greg Egan, Michael Marshall Smith e Richard K. Morgan, tra i nomi di maggior interesse emersi dalla fantascienza di questi ultimi anni. E se Banana Yoshimoto, acclamata scrittrice nipponica, arriva a citarlo direttamente nelle sue opere (Amrita), in ambito cinematografico Andrew Niccol (Gattaca, The Truman Show, S1m0ne, In time), Alex Proyas (Il Corvo, Dark City), David Cronenberg (eXistenZ), David Lynch (Strade Perdute, Mulholland Drive), Richard Linklater (Waking Life, A Scanner Darkly), Richard Kelly (autore del piccolo cult Donnie Darko e di Southland Tales), Darren Aronofsky (Pi – Il teorema del delirio), Michel Gondry (Se mi lasci ti cancello), Terry Gilliam (BrazilL’esercito delle 12 scimmie) e i fratelli Andy e Larry Wachowsky (artefici del fenomeno Matrix, che molto deve alle ossessioni dickiane) hanno in qualche modo continuato sul grande schermo un discorso intrapreso da Dick, con le sue folgorazioni e intuizioni purtroppo stroncate dall’improvvisa scomparsa. Anche nel mondo delle graphic novel Dick può vantare sostenitori irriducibili, come ad esempio gli autori culto Alan Moore (V for Vendetta), Enki Bilal (Il sonno del mostro, 32 dicembre), Warren Ellis (TransmetropolitanGlobal Frequency), Grant Morrison (The Filth). E il suo influsso non si esaurisce certo qui, vista la profonda affinità, di temi e di approccio, che lo lega a doppio filo con un altro grande della letteratura contemporanea (il più grande, secondo alcuni): Thomas Pynchon.
La letteratura di Dick si nutre in primo luogo di ambiguità (cfr. V. Curtoni, L’ambiguità al potere): i confini del suo mondo sono labili e sfumati, come quelli della percezione. Qualcuno dei suoi personaggi non si arrende allo scacco e anzi si sforza di sfruttare questa consapevolezza per piegare il mondo al proprio potere, come il sinistro Bertold Goltz, leader dell’organizzazione neo-nazista dei Figli di Giobbe che ne I Simulacri progetta di tornare indietro nel tempo per salvare addirittura lo spietato gerarca Hermann Goering; qualcun altro, invece, accetta la verità con fatalistica rassegnazione, come il cacciatore di androidi Rick Deckard o il semivivo Joe Chip di Ubik. Su questa distinzione si fonda la classificazione definitiva del genere umano, operata da Dick sull’impulso della sua notoria attitudine all’ideazione di nuovi sistemi sociali: gli uomini di potere e i loro sottoposti. Ma se pure la lotta si consuma tra loro, la realtà non fa distinzioni di classe e il destino sa prendersi gioco di tutti, senza preferenze. È proprio a questo punto, sul campo sgombrato dai minacciosi rivali, che emergono sulla scena gli ultimi, i diseredati, tenuti ai margini del flusso decisionale tanto dai custodi del segreto (che Dick chiama con il termine tedesco Geheimnisträger), quanto dagli esecutori di ordini (i Befehlträger): individui talmente in basso nella scala sociale da non essere ritenuti nemmeno idonei a mettere in atto un comando. Il demiurgo dell’universo narrativo dickiano è una semidivinità capricciosa e inaffidabile, per questo la sua simpatia (come d’altronde quella del lettore e quella dell’autore stesso) va a questi individui: Manfred Steiner (Noi Marziani), Plautus Kongrosian (I Simulacri), John R. Isidore (Cacciatore di androidi). Sono gli umili, i deboli, i mutanti, i subnormali, i diversi. Solo a loro Dick riserva la misericordia del riscatto, in virtù della loro semplicità e innocenza, del loro essere “candidi”.
La salvezza e il futuro sono nelle loro mani, non in quelle dei capitani d’industria, dei leader politici, dei superuomini. Al contempo una crudele ironia e una grande fortuna.

3.1 L’eco del sogno. L’ambiguità genera tutta la gamma cromatica dello spettro narrativo di Philip K. Dick. L’indistinguibilità tra umano e artificiale può allora traslare verso la confusione tra il reale e la simulazione. Praticamente tutti i romanzi di Dick si confrontano con questo tema: qual è la realtà? Cosa è reale?
Ogni libro di Dick ha una componente ludica che rende necessaria, in qualche modo, la partecipazione del lettore per sbrogliare la matassa della narrazione. In questo senso, come è possibile farlo per Pynchon, potremmo paragonare i romanzi di Dick a dei prototipi di elaboratore quantistico: nelle sue pagine diversi piani di realtà scivolano gli uni sugli altri, come gli strati in movimento di un fluido ideale, compenetrandosi e degenerando gli uni negli altri. L’immagine viene resa con una soluzione efficace dalle facoltà dei precog di Ubik e dal JJ-180 di Illusione di potere (una droga neurotropa potentissima, chiamata anche frohedadrina, “dal tedesco Froh, gioia, e dalla radice greca hed, che indica il piacere”): entrambe mostrano il futuro come una coesistenza di possibili linee evolutive caratterizzate da diversi livelli di probabilità. Sta al soggetto interessato fare la propria scelta, provocando la riduzione dello stato ad un unico futuro possibile.
Lo stesso accade nei romanzi di Dick. La sovrapposizione dura fino allo scioglimento, quando lo stato del sistema collassa per effetto della riduzione, e davanti al lettore si presenta finalmente la risposta. In un parallelo metafisico che Dick forse avrebbe gradito, potremmo dire che è allora che la verità viene rivelata. E agli occhi del lettore si presenta lo stesso scenario che attanaglia le visioni e gli incubi del piccolo Manfred, lo stesso panorama che si mostra ai “prigionieri” del Labirinto di morte (A Maze of Death, 1970), quasi un preludio alla successiva svolta mistica di Dick, la stessa landa di desolazione piegata al kipple, “un quadro di decadimento e assoluta, eterna distruzione”. La realtà vera sa essere ben peggiore di quella percepita dai nostri sensi, come c’insegna proprio Labirinto di morte, uno dei più cupi e angosciosi apologhi dickiani sulla fallacia delle percezioni, dove la simulazione di un mondo alieno, incomprensibile e soffocante, maschera la triste verità di un irrevocabile ergastolo gravitazionale.

3.2 Giro turistico per le stanze del moratorium. Nella sua breve ma intensissima carriera come scrittore di robaccia fantascientifica, Philip K. Dick è riuscito a parlare di temi tristemente attuali e a inserirsi con autorevolezza in una discussione filosofica che procede da secoli, senza mai far mancare al lettore il gusto di una trama coinvolgente ed elettrizzante. I colpi di scena e l’azione, spesso ispirati da un senso dell’umorismo irriverente se non proprio dissacratorio, celano una lucida discussione sul senso più profondo della condizione umana. I suoi androidi, i simulacri, i mutanti provvisti di facoltà straordinarie (telepatici, paracinetici, precognitivi), i subnormali che affollano le sue pagine, incarnano tutti una metafora, attori di una trasposizione teatrale della tragedia del vivere.
Il discorso di Dick è stato trasversale alle più disparate discipline del pensiero. Parlando della natura della realtà attraverso la discussione della nostra purezza percettiva, Dick approda a un discorso più ampio sulla possibilità del trascendente e del divino; discutendo la fallacia delle nostre percezioni, si è fatto testimone del fenomeno della tossicodipendenza, evolvendo le proprie posizioni rispetto alla droga dal liberale sperimentatore degli esordi alla definitiva, aspra disapprovazione delle conseguenze distruttive della sua assunzione e del suo possibile utilizzo come forma di controllo sociale; e qui ecco un nuovo salto, verso la disamina feroce del potere e dei suoi meccanismi di perpetuazione (l’iterazione infinita di modelli, imprigionati nella forma elettronica dei simulacri di capi di stato ormai morti), che conduce invariabilmente a sentenze di condanna senza appello, a prescindere dal segno o dal colore ideologico usato come specchio per le allodole. Ma il Dick più amato, almeno a giudicare da quell’autentico fenomeno di culto in cui si è trasformato Blade Runner negli anni (è bene ricordare che alla sua uscita il film si attirò critiche severe e si rivelò un fiasco commerciale), è quello che anticipa il dibattito etico di pressante attualità sui confini tra la vita biologica e la vita artificiale, sulle possibilità di discriminazione che sono concesse agli uomini per decidere dove finisca l’una e cominci l’altra, sui rapporti di sfruttamento ed emulazione tra i creatori e le creature.
Non deve essere un caso se per lungo tempo Dick ha considerato proprio Do Androids Dream of Electric Sheep? come la sua opera più riuscita. Anche perché, da amante delle anatre e delle pecore, sentiva il libro particolarmente vicino alle sue posizioni, per il modo in cui affrontava un tema a lui particolarmente caro come “il rapporto dell’uomo con gli animali”.