La riflessione sul cambiamento può prendere le mosse da due condizioni opposte. Da un lato, il cambiamento stesso può indurre nell’osservatore lo stimolo all’interpretazione e all’estrapolazione, allo scopo di anticiparne e prefigurarne gli esiti, per denunciare un rischio o anche solo per tener fede a un’aspirazione di attendibilità. Dall’altro, la molla innescante può essere la possibilità del cambiamento, l’introduzione di un elemento di divergenza in un contesto inizialmente statico e immobile.

Esiste poi l’intero spettro delle condizioni intermedie, le diverse combinazioni ibride dei due estremi.

Per esempio, pensiamo al mondo che ci circonda. Il progresso tecnologico ha imboccato una china sempre più ripida, le innovazioni si succedono a un ritmo crescente che diventa ogni giorno che passa sempre più vertiginoso. Eppure a questa accelerazione tecnologica non corrisponde quasi mai un’immediata ricaduta sul tessuto sociale. Il telelavoro prefigurato fino a un decennio fa come una delle principali innovazioni che avrebbero interessato il mercato del lavoro è naufragato prima ancora di partire. In compenso, con assurde e paradossali pretese di flessibilità, si è reso il mercato del lavoro sempre più precario e si è prodotta un’intera fascia di disoccupazione giovanile come mai le generazioni che ci hanno precedute avevano avuto modo di conoscere.

Non si può restare insensibili al cambiamento. Come non si può restare indifferenti all’immobilismo. Entrambi ci prospettano situazioni con vari gradi di problematicità. E le situazioni problematiche sono il carburante drammatico di ogni storia. Occorre un esercizio costante e continuato per affinare la sensibilità e riuscirne a cogliere i risvolti, con l’obiettivo di trasfigurarle nei nostri racconti.

Il passaggio al nuovo anno è stato un ottimo momento per rispolverare il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere di Giacomo Leopardi, testo conciso ma di grande efficacia sul sentimento di vana e riluttante aspettativa legato all’iniziare di ogni nuovo anno, spesso smentito dallo stesso scorrere del tempo. La riflessione su Utopia e Disincanto (per chiamarla col titolo di un bel saggio di Claudio Magris, uscito all’alba dell’attuale millennio) è un tema trattato profusamente dal pensiero e dalla letteratura degli ultimi secoli, sul quale vale la pena soffermarsi in questo particolare momento storico, ora poi che siamo entrati nel fatidico 2012, il proclamato anno dell’apocalisse: ci aspetterà la catastrofe finale, come troppo spesso fonti che poco o nulla hanno di scientifico hanno vaticinato, oppure la rivelazione, come suggerirebbe l’etimo greco?

Una volta venuta meno la fiducia connaturata alla giovinezza o legata al sostegno incondizionato di una fede o di un ideale, sarebbe facile indugiare nella rassegnazione per effetto della delusione; o, ancor più, scivolare in qualche forma di pessimismo oppure nella ricerca di una via di fuga dalla realtà. La domanda che già si pose Immanuel Kant nella Critica della Ragion Pura è pertanto: “Che cosa posso sperare?”. La risposta è suggerita dall’ineluttabile esigenza di rinnovamento che nasce proprio di fronte al crollo dell’illusione: vivere secondo utopia e disincanto, indissolubili tra loro.

Utopia come lotta contro la rinuncia e per il cambiamento nel rispetto della lezione di Bertolt Brecht, che strenuamente spronò nelle sue opere a vincere l’impassibilità, a coltivare il dubbio, a non rassegnarsi allo stato delle cose (“Ci sono uomini che lottano tutta la vita. È di loro che non possiamo fare a meno”). Ma è necessario anche il disincanto, quale svolta che permetta la comprensione dei limiti propri e dell’uomo, ma non per questo scoraggi nel credere e coltivare un mutamento possibile. Esemplificativo in tal senso, come evidenzia lo stesso Magris, è il legame simbiotico tra Don Chisciotte, colui che scambia il sogno con la realtà, e Sancho Panza, che sa vedere le cose nella loro oggettività ma anche capire che è fondamentale ricercarne il lato incantato, le potenzialità invisibili.

Il cosiddetto Secolo Breve, nonostante sia già stato oltrepassato, non è ancora del tutto concluso, ne stiamo vivendo gli ultimi amari strascichi, sta implodendo in una crisi totale di quello che era considerato il classico modello occidentale. Il suo declino definitivo potrebbe essere la “catastrofe inaudita” con la quale Italo Svevo concluse La Coscienza di Zeno, un passo soggetto a plurime interpretazioni, tra le quali quella che preferisco è che l’attraversamento dell’apocalisse potrebbe rappresentare simbolicamente la presa di consapevolezza della malattia mortale (come la definì Søren Kierkegaard) dell’uomo moderno, non come limite e ripiegamento su se stessi, bensì del fatto che “La vita non è né brutta né bella, ma è originale”.
È quindi riconoscere e accettare, attraverso una pur dolorosa catarsi che ha il sapore della tragedia classica e necessita di una fondamentale dose di ironia, il disincanto, per accedere a un’utopia attuabile e responsabile.

Significativo mi sembra anche La strada di Cormac McCarthy, romanzo di grande impatto e forza e dalle molteplici chiavi di lettura. In un mondo post-apocalittico, desolato, pressoché disumanizzato, il protagonista non è un supereroe, un uomo invincibile, bensì un bambino. Credo che questa simbologia sia a dir poco dirompente: per superare il tracollo del mondo, non si ricorre a superpoteri hollywoodiani, ma la possibilità di salvezza risiede nella riscoperta delle occasioni che il domani può ancora offrire, nel voler credere che il sud, il mare possano essere raggiungibili, giorno per giorno. Nonostante tutto il male che si è obbligati a subire, legato all’essere figli dell’orrore e il vagare in una nebulosità che talora può offuscare gli obiettivi, McCarthy incoraggia a non cedere ad un egoismo disumanizzante o al desiderio di morire, ma a serbare nella maturità un’innocenza tesa al cambiamento, individuando i fattori di forza nell’eccezionalità dei sentimenti celati dentro di sé e in ciò che si vive tutti i giorni (metafora che nel romanzo è rappresentata dal fuoco portato dal bambino insieme al padre).

Soprattutto in questi anni di crisi e di fallimento delle certezze e del mondo come lo conoscevamo, forse proprio la letteratura può aiutare a mostrare che la speranza è ancora possibile, anzi, è nostra precisa responsabilità, perché, come scrisse Italo Calvino nel meraviglioso finale de Le Città Invisibili:

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”