febbraio 2012


Un vagone fuori controllo sta percorrendo a tutta velocità il binario ferroviario verso di voi. Siete vicini alla leva di uno scambio, dopo di voi il binario si biforca: una direzione porta verso un canyon lungo il quale avanzano cinque persone; l’altra porta verso un secondo canyon, in cui un’unica persona sta seguendo il tracciato delle rotaie. Se lasciate la leva com’è, il vagone imboccherà la prima direzione e il gruppo di cinque persone, senza via di scampo, verrà travolto. Se invece azionate lo scambio ferroviario, il vagone verrà dirottato sul secondo binario, travolgendo il solitario. Cosa fate?

L’esperimento, che abbiamo volutamente riformulato come se fosse un quesito del test Voight-Kampff di Philip K. Dick, immortalato nella magistrale resa cinematografica di Ridley Scott, è un dilemma etico concepito dalla filosofa britannica Philippa Ruth Foot nel 1978 e oggetto di esame da parte di numerosi altri studiosi. Noto come trolley problem, ovvero “problema del carrello ferroviario”, rappresenta un classico nella filosofia etica, riproponendo l’antico dilemma se sia lecito sacrificare la vita di pochi per salvarne molti.

Di recente lo psicologo Carlos David Navarrete dell’Università del Michigan, ne ha ideato un’innovativa variante, che si appoggia agli strumenti offerti dalla realtà virtuale per sottoporre soggetti umani a una simulazione di quello che fino a ieri restava confinato nel campo degli esperimenti mentali. Potete visionarne una clip qui. I risultati, riportati sulla rivista Emotion e ripresi da Le Scienze, confermano le ricerche effettuate in precedenza. Di 147 partecipanti, infatti, ben 133 (pari al 90% dei casi) hanno risposto azionando lo scambio. Dei rimanenti 14, 11 non hanno toccato la leva, mentre altri 3 hanno azionato lo scambio prima di riportare la leva nella posizione originaria. Navarrete ha così commentato gli esiti del test:

Ritengo che gli esseri umani provino un’avversione istintiva a fare del male agli altri, avversione che deve essere superata da qualcosa. Usando il pensiero razionale a volte riusciamo a superarla, per esempio pensando alle persone che salveremo. Ma per qualcuno, l’aumento dell’ansia è così travolgente che non riescono a fare la scelta utilitaristica, quella del male minore.

Gli appassionati di fantascienza ricorderanno che sulla risposta empatica si fonda una parte cospicua della produzione di Dick. L’autore de I simulacri (The Simulacra, 1964), Cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968) e A. Lincoln, Androide (We Can Build You, 1972), attratto dalla linea di confine che distingue il reale dal simulato e continuamente alla ricerca di un metodo per discriminare la natura umana da quella artificiale, individua proprio nell’empatia l’elemento di distinzione. Ma nel romanzo all’origine del copione di Blade Runner l’autore mostra anche gli effetti collaterali di una società fortemente automatizzata, che è arrivata a produrre come esito supremo della catena industriale il sofisticato modello umanoide Nexus 6: un androide capace di simulare in tutto e per tutto l’uomo, al punto da essere da questo praticamente indistinguibile. Se non attraverso il test Voight-Kampff.

Dick arrivava alla fine del suo capolavoro a suggerire un dubbio dilaniante: se gli androidi diventano sempre più umani, non potrebbe essere che gli uomini che si appoggiano alle macchine per modulare il proprio umano, che preferiscono l’immobile realtà virtuale proposta dal predicatore Mercer alla possibilità di intervenire sulla realtà per modificare, ciascuno sulla base delle proprie capacità, un mondo sull’orlo del collasso, che danno la caccia gli androidi vincendo la resistenza empatica a uccidere dei loro simili… stiano essi stessi diventando sempre più artificiali?

L’esperimento di Navarrete potrebbe fornire un nuovo strumento di analisi e riconoscimento ai blade runner del futuro.

Il filone steampunk sta attualmente vivendo un momento di riscoperta, suscitando attenzione non solo negli ambienti prettamente legati al fantastico e alla fantascienza. In realtà questo riacceso interesse spesso si discosta dalla vera natura dello steampunk. Potremmo piuttosto definire ciò che sta accadendo come un fenomeno di costume, un effetto scenografico, una sensibilità d’ascendenza steampunk che va a ispirare campi quali il design, le arti e persino la moda, tanto che, ad esempio, bijoux di siffatto stile affollano le vetrine virtuali di Etsy e nelle gallerie virtuali di artisti e designer si moltiplicano i lavori ad esso riconducibili.

Anche in Italia il fenomeno non è da meno: un punto di riferimento è la recente riedizione, nella collana Odissea Fantascienza di Delosbooks, del libro cardine del genere, La trilogia Steampunk di Paul Di Filippo, nella cui stimolante introduzione il traduttore Salvatore Proietti, oltre ad un excursus sulla storia del genere, pone l’attenzione proprio sul significato autentico di ciò che significa steampunk e sul suo messaggio originario.

Un suggestivo esempio invece di quello che si può far rientrare in un più generico gusto d’ispirazione è l’esposizione Mobilis in Mobili, allestita tra novembre e gennaio presso il Wooster Street Social Club, celebre tattoo studio di New York. La mostra ha rappresentato un’opportunità per ventisei artisti di esporre le proprie opere, ma soprattutto un’occasione di ritrovo per gli appassionati, come ha confermato subito la serata di apertura, alla quale hanno partecipato decine di persone, animata dall’esibizione dei Frenchy and the Punk, duo stravagante che propone un’eccentrica combinazione di cabaret, burlesque, sonorità folk-gypsy, in costumi steampunk, e dalla sessione di tattooing organizzata dagli artisti di spicco del WSSC durata l’intera notte. Il tutto annaffiato da una buona dose di gin.

Dietro a tutto questo c’è la collaborazione di un nome non inedito, quello di Bruce Rosenbaum, considerato uno dei maggiori esperti ed appassionati americani di steampunk e non nuovo a simili iniziative. Rosenbaum confessa apertamente che la sua passione lo accompagna fin dall’infanzia, quando leggeva rapito le storie di Jules Verne e sognava di vestire i panni del mitico capitano Nemo. Il titolo di questa esposizione, la cui traduzione suonerebbe all’incirca come “in movimento dentro ciò che si muove”, riprende proprio il motto del Nautilus, il celebre sottomarino di Ventimila leghe sotto i mari. L’intento dichiarato di Rosenbaum, attraverso le sue proposte ed attività, è di diffondere la conoscenza e la passione per lo steampunk, dimostrando come esso possa essere un veicolo per riscoprire il gusto per il passato, ma con lo sguardo vigile verso il futuro (una sua massima infatti è “move into the past’s new future”), e come il recupero di ferraglia arrugginita e dimore in rovina, con un po’ di fantasia e dedizione, possa prestarsi a utilizzi originali e creativi.

Nelle sale ricolme di Mobilis in Mobili, oltre ad una vasta gamma di opere funzionali o di arredamento e molte altre estremamente bizzarre e curiose − non da ultimo una minacciosa sedia elettrica, biciclette a vapore motorizzate e, naturalmente, gli immancabili dirigibili −, si potevano ammirare le chitarre di Steve Brook, adornate da ogni sorta di ingranaggi, pezzi metallici d’epoca o d’auto storiche, nonché le scatole diaboliche di Chris Osborne, manufatti assemblati con materiale di recupero e lampade industriali. Su tutti spiccava in particolare la presenza di Christopher Conte, un artista le cui quotazioni di mercato sono in costante aumento (tanto da essere di recente intervistato dal prestigioso magazine YRB) e che da alcuni anni si sta dedicando con particolare attenzione alla realizzazione di straordinari e raffinati lavori in metallo. In occasione di questa mostra, Conte ha congegnato una stupefacente macchina per tatuaggi a forma di zanzara, recuperando vecchie parti meccaniche poi saldate pezzo su pezzo, dopo un’accurata pulizia e modellazione.

Mobilis in Mobili si connota quindi come un’iniziativa davvero affascinante. Avendo potuto farci un salto, non mi sarei stupita se, dopo l’inebriante spettacolo di simili mirabilia, passeggiando nella caratteristica cornice di SoHo, nel suo mix unico di stili moderni e rétro, alzando gli occhi avessi visto di sfuggita sfrecciare nel cielo newyorkese la mitica aeronave dei Compari del Caso .

Le nostre riflessioni connettiviste hanno un habitat, generalmente, ristretto all’ambiente del Movimento: i pensieri e le teorie che sono alla base delle intuizioni che espletiamo, con frequenza asincrona e non con la stessa prolificità tra i diversi membri del collettivo, hanno spesso esistenza esclusivamente all’interno del nostro circolo; auspicabile sarebbe riuscire a esportare questi filamenti di idee verso il mondo che ci permea, la cosiddetta realtà. Esportarli significa renderli fondanti, destabilizzanti per certi versi perché così diverrebbero in grado di cambiare la realtà e renderla nuova, non dico connettivista ma, almeno, con al suo interno elementi di discontinuità dal presente, una sorta di terreno culturale su cui le nuove generazioni possano trovare elementi di fecondità. Qualcosa per cui loro potranno – si spera – sentirsi nuovi rispetto al nostro mondo, pensiero, vita, memi.

Ecco perché è importante che i connettivisti escano dalla loro culla e si collochino, tanto per cominciare, nell’alveo della cultura cosiddetta mainstream. Iniettare idee nel tessuto forse moribondo del nostro tempo, ispirare la consapevolezza del mutamento, instillare quella visionarietà postumana che potrà cambiare la nostra civiltà e interpretarla secondo declinazioni di equità ed empatia, è forse il lascito che potrà testimoniare maggiormente la nostra vitalità il giorno che noi non saremo più. Dal lato intellettuale, intendo: il giorno in cui le nostre idee non avranno più nessun connotato di novità.

Dalla Primavera Araba fino al popolo di Occupy Wall Street intercorrono pochi mesi, centinaia di chilometri e milioni di dati sparati nell’infosfera. Infilando la mano nel magma, a proposito di movimenti di protesta, si potrebbero tirare fuori parole simili:

“Sono solo una banda di teppisti, ladri, stupratori, una teppa che si richiama alla nostalgia dell’epoca di Woodstock e alla falsa superiorità morale che si agitava in quell’epoca. […] Dovrebbero smettere di dar fastidio a quelli che lavorano, e andare invece a cercare un’occupazione per se stessi”.

Dichiarazione raccolta fuori da un circolo di vetero-leghisti e anziane massaie repubblichine? Magari. Sono invece di Frank Miller, mastro fumettaro d’oltreoceano. La vignetta successiva è di Alan Moore, che invece vede la maschera di Fawkes/V diventare il volto di una protesta globale. Il “Mago di  Northapton” si piazza al polo opposto rispetto al collega, definendo il nuovo movimento anticapitalista globale come:

“Un urlo di giustificata indignazione morale, gestito in maniera molto intelligente, non violenta, cosa che per Frank Miller è probabilmente un altro motivo per non esserne soddisfatto”.

Ma la strada per realizzare anche solo una parte dell’utopia anarchica nonviolenta auspicata da Moore (e molti altri, a dire il vero, tra cui Ursula K. Le Guin) è piena non solo di gente pronta a fare lo sgambetto e a distribuire mazzate, ma di altri dotti che rivendicano il diritto alla tortura; ne fa cenno Cory Doctorow, raccontando di come la polizia segreta canadese abbia chiesto al governo di non prendere misure che possano in qualche maniera limitarne l’azione negli interessi del Paese.

Al di là del manicheismo da stadio a cui noialtri italiani siamo ben avvezzi, la violenta ignoranza insita nelle parole di Miller non stupisce affatto. Quello che sconforta è che, scendendo in strada, non si faticherebbe troppo a individuare pensieri simili, tangenti o paralleli. Sono troppi in giro ad avere una parte del cervello immersa nei conservanti. Neuroni così ben affogati in formaldeide che scanserebbero senza troppa fatica argomenti come quelli canadesi. La tensione, intanto, è destinata a salire. Scivolare dall’utopia alla distopia potrebbe non essere più una formalità letteraria.

Il Corriere.it pone l’accento sulle evoluzioni del mondo della moda che sfruttano abilmente l’avvenenza di modelle virtuali. Nulla di nuovo, il cyberpunk ha reso per noi questi dilemmi familiari da almeno venticinque anni, ma la moltitudine mainstream forse non è abituata a ragionare in questi termini, per cui provo ad approfondire l’osservazione.

Il kernel della questione è: la catena di moda H&M usa degli avatar per mostrare come calzino a pennello i suoi capi di abbigliamento; le modelle hanno le fattezze perfette di veri volti, ma il loro corpo è cristallizzato in pose identiche. Il Corriere dice, testualmente: le mannequin hanno tutte le stesse proporzioni – e lo stesso ombelico. E ogni posa è identica all’altra: il bacino è leggermente inclinato verso destra, il braccio destro cade dolcemente dietro l’anca, mentre le punta delle dita della mano sinistra poggiano in modo discreto sulla coscia destra. Solamente il viso, l’acconciatura e il colore della pelle sono diversi.

Nulla di strano, sembra. In fondo, da sempre siamo abituati a vedere manichini dai volti anonimi fare da impalcatura per i capi di abbigliamento esposti nelle vetrine dei negozi. Il motivo dello scandalo sembra essere che i manichini, ora, sono diventati virtuali. Come virtuali sono diventati alcuni attori – e qualche esempio c’è già stato in passato, come Brandon Lee in alcune scene de Il corvo girate quando lui era ormai morto, oppure Andy Serkis (Gollum) nel Signore degli anelli o, ancor più calzante esempio, quello che avviene nel film Avatar.

La novità della situazione è data non tanto dal tentativo di uniformare un’estetica propria delle vere modelle taglia 0 a tutti i potenziali fruitori degli abiti H&M, quanto dal tentativo di forzare i gusti usando la virtualità. L’asservimento della tecnologia alle logiche di mercato, alle standardizzazioni sociali, introduce un nuovo livello di marketing ancor più esasperato dei precedenti , un’operazione di condizionamenti sociali a cui sembra ancora più arduo sottrarsi: il rischio di essere plagiati tramite la tecnologia è subdolo e presente, pericolosamente elevato; qui siamo oltre la taglia 0 perché le modelle virtuali, è evidente, possono apparire filiformi senza sforzi, costringendo un’intera generazione di adolescenti o di giovani donne a raffronti impropri con corpi inesistenti, forzandole a somigliare agli avatar delle aziende di abbigliamento.

La tecnologia non può sbagliare, la tecnologia è bellezza e verità: l’assunto – pericoloso ed evidente, strisciante – non può che portare alla felicità. Se già doveste pensarla così, quindi, fermatevi un istante e ragionate: uscite dall’avatar, siate consapevoli di essere ancora carne e ossa di persone vive.

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