Come annunciato dall’autore e dall’editor sui rispettivi blog (HyperHouse False Percezioni) esce in questi giorni Olonomico, ultima fatica di Sandro Battisti, iniziatore del connettivismo, curatore di Next ed editor di HyperNext. Olonomico è un romanzo che riprende le complesse e imperscrutabili trame dell’Impero Connettivo. Per maggiori informazioni, rimando alla pagina ufficiale sul sito di CiEsse Edizioni, costantemente aggiornata. Qui di seguito riporto la quarta di copertina del libro, disponibile per la collana Silver curata da Luigi Milani sia in una elegantissima edizione cartacea che in e-book DRM free.

Nel cosiddetto Impero Connettivo – uno Stato modellato sull’esempio dell’Impero Romano, il cui dominio si estende sia sullo spazio sia nel tempo – l’imperatore Totka_II e il suo alto funzionario Sillax continuano a progettare espansioni territoriali e temporali. Le loro nuove mire si concentrano su un territorio dove i giovani Lycia e Storm interagiscono caoticamente con uno strano personaggio che si nasconde dietro movimenti apparentemente incomprensibili.

L’Impero, governato da una stirpe di alieni semieterni, causa prima dell’umanità e poi della postumanità, è davvero così florido? Che cosa accadrà, quando i percorsi di tutti i personaggi del romanzo s’incontreranno, e utilizzeranno tutti i continuum con cui verranno in comunicazione? Una splendida metropoli, asettica e algida li attende…

Sandro mi ha chiesto molto generosamente di contribuire a questa sua ultima uscita con una prefazione (che potete leggere sul mio blog), inclusa nell’edizione in distribuzione insieme a questa visionaria e scanzonata postfazione di Marco Milani:

23.09.2073

Base Luna Totka. Sala stampa 1 ‘Zoon’.

Saluto la platea, tutta, e altrettanto saluto i collegati, lunari, terrestri ed extra. Saluto anche i connessi al sistema, i primi eroici ‘Neoconnettivi’ postumani che sono riusciti a integrarsi in modalità definitiva.

Per chi non mi conoscesse mi presento: Marco Pykmil Milani, l’ultimo dei connettivisti. Del gruppo ‘The Origins’ erano tutti letterati in gamba ma senza ‘fisico’, ovvio che l’unico più zen li avrebbe lasciati indietro.

Non ridete?

Ah ok, non l’avete capita subito. L’antico umorismo terrestre non è immediato, tantomeno universale. Lei non l’ha capita? Sì, lei che si gratta… non so cosa con la chela.

Cosa dice? Cos’è l’umorismo?

Bella battuta Nexiano, lei è più sveglio di quel che sembra, mi stava fregando. Ma proseguiamo… Questa Galacti-Nextcon è particolare, diversa da tutte le altre, soprattutto siamo qui, in questa storica congiuntura, per inneggiare a un amico e al suo sopraggiunto successo, quando finalmente le idee innovate sono arrivate non solo ad essere comprese, anche applicate. Un connettivista della prima ora: Sandro Battisti, aka Zoon.

Siamo qui per invocare da ultimo a giustizia fatta, ovvero ‘Olonomico’ è in 3Dvideo. Un document-film colossal a vent’anni esatti dalla morte dell’autore, come da bastarda tradizione, a confermare postumo il ‘genio oscuro’ del Connettivismo e il suo avanguardistico pensiero. A sessant’anni dalla stesura del prototipo del libro Sacro, a chiudere un cerchio iniziato parecchio tempo fa, nello scorso millennio.

Ricordiamo le sue profetiche parole: “Lo sguardo è rivolto in alto, verso la notte, verso la volta stellata dell’avamposto siderale dove sono, un luogo galattico in questo continuum traslato di gradi olografici indefiniti, indefinibili, sconosciuti a qualsiasi computo postumano.”

L’evoluzione dell’impero connettivo parte da qui: dalle quanto-verità del Precursore Battisti, per il futuro del Rivelatore Battisti, verso l’Universo del Sognatore Battisti.

Lunga vita all’Impero.

Memoria eterna al suo fondatore, pixel quantici nell’eternità postumana.

Che c’è da ridere, Nexiano?

Nessuna battuta. Devo rivedermi sull’averla ritenuto sveglio, non fosse che quel che rimane di me è una versione virtuale, verrei a darle una strigliata come si deve.

Lunga vita all’Impero!

Memoria eterna al suo fondatore!

Come una garza avvolge un corpo dall’epidermide indifesa e troppo sensibile, così le ierodule proteggono l’hacienda dove si troverebbe più esposta al contatto col materiale non inerte: amministrazione e servizi, dipartimenti di selezione e dismissione delle risorse umane. Il clero dirigenziale se ne avvale come segretarie e assistenti.

Segno del loro passaggio è una scia di profumo, nuvola imprendibile di estenuata dolcezza, che invita al deliquio; nulla potrebbe contrastare di più con l’ambiente in cui si svolgono le attività lavorative, regno dell’esattezza e delle luci crude.

Come carrozzerie di automobili di lusso nel salone del concessionario, mai violate dalla polvere del mondo e dall’unto di dita umane, i loro paramenti si mostrano perennemente lucenti della patina del nuovo. Spesso, al pari di mastini, hanno volti devastati e brutali, carbonizzati dalle lampade abbronzanti, mentre gli apparati di vestiario sono leziosi, ingentiliti da pizzi e ricami da ragazzine, scrittarelle tirabaci, brillantini giocondi.

Portano gioielli zingareschi, fatti per tintinnare come segnali: orecchini con lunghi pendagli, collane d’ambra e altre pietre grosse e scure, che cozzando replicano il battere dei tacchi sui pavimenti marmorei dei piani alti. Inaspettata è la loro cortesia, così come lo sgarbo; ma per lo più si mantengono distanti e impassibili. Solo a chi si presenta molto presto o si trattiene fino a notte potrà capitare di sorprenderle in compagnia delle rispettive eminenze, in qualche ufficio rimasto deserto, o presso i distributori automatici di bevande; e allora le si vedrà ridanciane, quasi melliflue, mentre con gesto d’inaudita intimità aggiustano cravatte.

—F.Sollima, Fenomenologia dell’umiliazione, I, p.264

All’IFA di Berlino di quest’anno – la più importante fiera di elettronica di consumo europea che si tiene annualmente a Berlino, in Germania – sono emerse diverse innovazioni tecnologiche che tolgono il fiato, danno il senso del meraviglioso; un po’ di questo senso del futuro lo possiamo respirare da un paio di articoli di Repubblica (qui e qui). Ai televisori di altissima e raffinata tecnologia (prendo per esempio, sempre da Repubblica, questa descrizione):

piattissimi, contrasto illimitato, colori brillanti grazie ai sub-pixel che illuminano il 20% in più rispetto a un led tv e affiancano la tecnologia multi view, che consente a due persone di visualizzare simultaneamente sullo stesso schermo due programmi differenti, con la possibilità di ascoltare ogni programma separatamente usando degli occhiali con cuffie integrate. C’è anche la possibilità di “muovere” i canali con il solo gesto della mano

si affiancano lavatrici, frigoriferi, ferri da stiro, tutti oggetti ridisegnati da funzioni impensabili fino a un giorno fa e che già propongono il ridisegno della casa del futuro (fonte: stesso articolo di Repubblica):

il prototipo Digital Rapture è un sistema formato da quattro parti che dialogano per permettere all’utente di riprodurre in casa le atmosfere degli ambienti esterni. Come? Semplicemente con una spilla che si chiama Redocrypt: è capace di memorizzare gli odori, i colori, i suoni e le vibrazioni del mare o di una passeggiata nel bosco e di riprodurle, attraverso casse, una coperta a sensori e un pannello luminoso, all’interno della propria abitazione.

La domotica, insomma, appare oggi la frontiera più estrema della tecnologia, e fa davvero male vedere il mondo dei computer e dei sistemi operativi segnare il passo, mentre rincorre il sistema touch perfetto e non innova nulla nelle funzionalità. Il software appare come un oggetto sottomesso al marketing, per vendere PC e telefonini sembra che occorra soltanto l’adozione di sistemi più versatili e cool per le gesture, il modo più eclettico di sfogliare e zoomare lo schermo acquisisce agli occhi del consumatore molta più importanza delle novità intrinseche alle funzionalità software (a chi dovesse essere interessato all’argomento consiglio un mio approfondimento apparso su Delos 147) e così, le automatizzazioni robotiche riprendono il ruolo che scrittori di SF del passato avevano previsto, lasciando gli ingegneri software sepolti sotto un bellissimo e inutile schermo tattile.

Modalità di relazione basilare per l’hacienda, tanto all’interno quanto verso l’esterno, la prostituzione è una forma specializzata di scambio: una procedura che aspira a mettere in ombra e infine a sostituire modi più antichi di circolazione della potenza: il dono e il furto. A differenza di questi, lo scambio presuppone una comparabilità su base quantitativa; perciò la sua ormai onnipresente invadenza e l’invincibile instaurarsi di una quantocrazia globale sono due ganasce della stessa tenaglia. Inoltre, mentre dono e furto vengono evocati da una fascinazione che promana dall’unico, lo scambio deve essere sempre ripetibile, e dunque conta sulla replicabilità di ciò che viene scambiato. Ma la potenza è prerogativa dell’unico, mentre alla copia si può soltanto attribuire un valore convenzionale: perciò si dice che l’unico non ha prezzo, intendendo che si sottrae allo scambio. Il suo regime, che regna quasi incontrastato, appartiene al dominio dell’irrealtà: irreale infatti è la copia, nullo il suo valore e vano il potere che ne deriva, salvo che nella dimensione che gli è propria. Che poi l’irreale e l’assurdo esistano con tale forza allucinatoria da imporsi come evidenti, è un lusso che sarebbe stato più saggio rifiutare.

La prostituzione, in quanto scambio che il materiale non inerte fa di se stesso, nutre la vita stessa dell’hacienda; essa può far lenocinio delle risorse, e al tempo stesso gode della loro compiacenza, acquistandone l’immobilità nel tempo. Tale compiacenza, che si considera illimitata, impregna gli ambienti di tensione erotica: i cubicoli grigi e i corridoi polverosi diventano le quinte di vecchi giochi di seduzione, per lo più mentali. È un fenomeno che l’hacienda apprezza entro certi limiti, poiché ha l’effetto di incatenare vieppiù le risorse, e far sì che desiderino la stretta di quelle catene; d’altro canto le vibrazioni che esso genera, capaci di condurre al parossismo e travalicare i confini dell’immaginazione per tradursi in atti pubblici, minacciano l’immobilità su cui sono fondati i contratti; sicché l’hacienda preferisce talvolta irreggimentare queste attività in piccole finestre orgiastiche, ove l’abbondanza di alcolici, le musiche ossessive, il temporaneo venir meno della disciplina quotidiana, che per essere lasca non è meno ferrea, convincano anche i più restii a concedersi un quarto d’ora da aspirante maniaco. Non è concesso infatti di realizzare i sogni se non clandestinamente, oppure, come l’hacienda tacitamente consiglia, in forma delegata. È il clero dirigenziale a celebrare questi riti di realizzazione grazie a ierodule selezionate, o ricorrendo, in occasioni particolarmente solenni, a professionalità esterne.

—F.Sollima, Fenomenologia dell’umiliazione, I, p.261

L’incantamento pubblicitario conferisce eternità, unicità e perfezione. Ogni nuova versione del prodotto avoca a sé questi attributi, spogliandone la versione precedente. Questa pellicola lucente, vera vita del prodotto, che trasmigra intatta da versione a versione, vita eterna, unica e perfetta, dunque divina, è la sua promessa di potere, che chi acquista utilizzerà a proprio vantaggio. Ma per avvalersi dell’aiuto del dio l’acquirente dovrà essergli devoto e praticarne il culto: che consiste anzitutto nel conservarlo intatto, e per la maggior parte del tempo al riparo dalle ingiurie della polvere, degli agenti atmosferici, delle sue stesse dita comunque sudate. In poche parole, chiuso nell’imballaggio originale, lontano anche dalla vista.

—F.Sollima, Fenomenologia dell’umiliazione, I, p.355

Per il profilo di Alan D. Altieri rimandiamo alla prima parte di questo mini-speciale.

Laureato al Politecnico di Milano in Ingegneria Meccanica, scrittore, nei primi anni ’80 ti sei avvicinato all’industria cinematografica americana. Vuoi dirci come si è compiuto il tuo incontro con il mondo della celluloide, e in che modo la tua attività di scrittore si lega – si concilia – a quella di scrittore per il cinema?
Quello che si sa di me è del tutto corretto. Dopo la laurea (1976) ho effettivamente lavorato per sei anni come ingegnere. Fino al grosso mutamento del 1983.
Il merito, se vogliamo dire così, del mio ingresso nel cinema americano va soprattutto al mio primo editore italiano, il grande Andrea Dall’Oglio. Nella primavera del 1983, fu lui a inviare a Dino De Laurentiis Città Oscura, il mio primo libro pubblicato (1981). Dino lo trovò interessante, mi chiamò a New York e mi fece “la classica offerta che non si può rifiutare”.
Al tempo stesso, sono sempre un ingegnere. È una disciplina che si basa sulla logica e che mi continua a fornire un enorme aiuto nella comprensione dei problemi e nella strutturazione delle storie.

In qualità di story editor, produttore esecutivo e senior staff editor per Dino De Laurentiis hai preso parte a progetti di indiscutibile prestigio quali Conan il DistruttoreL’Anno del DragoneAtto di Forza Velluto Blu, legati a nomi  eccellenti dell’industria americana (e spesso in contrasto con l’establishment hollywoodiano): Michael Cimino, Oliver Stone, Paul Verhoeven, David Lynch. Ti va di parlarci della tua esperienza e magari svelarci qualche succulento aneddoto?
La “descoverta de le Americhe” in generale e di “Hollywood” – virgolette d’obbligo, o anche “Hollyweird” – non è stato un processo né semplice, né facile, né indolore. Per me rimane comunque un’esperienza unica e fondamentale.
In questa sede dovrò necessariamente essere breve. Gli uomini di cui sopra sono tutti talenti straordinari, anche se nei modi più diversi e antitetici. Cimino è un perfezionista cartesiano, Stone un autentico regista d’assalto di enorme capacità evocativa, Verhoeven un fenomenale “meccanico” affascinato dalla “femmina” (non proprio archetipica) in tutte le sue forme, Lynch è un esploratore del lato oscuro. Da ognuno di loro ho imparato qualcosa che poi ho cercato di mettere in pratica nelle mie esperienze successive di scrittore. Aneddoti succulenti? Non basterebbe la Encyclopedia Britannica per elencarli tutti. Mi limiterò a riportare un corrosivo appunto anonimo che trovai affisso in una bacheca dei Churubuscos Studios, a Mexico City, durante la lavorazione di “Dune” e di “Conan il Distruttore”.
Le cinque fasi della realizzazione di un film:
1) pazzo entusiasmo;
2) totale disperazione;
3) ricerca del colpevole;
4) condanna dell’innocente;
5) ricompensa dell’incompetente.
Well, how about that now?

Dal 1994 sei membro della Writers’ Guild of America, e nelle vesti di sceneggiatore hai collaborato alla realizzazione di un numero di film di tutto rispetto. Qual è il lavoro di cui vai maggiormente fiero?
Il formato della sceneggiatura è uno straordinario strumento narrativo. È la ricerca di un equilibrio stabile tra analisi e sintesi, tra emotività (dei personaggi) e necessità visuali (del film stesso). Nei miei dieci anni di sceneggiatore a tempo pieno (1987/1997) ho scritto oltre quaranta tra sceneggiature, trattamenti e soggetti.  Quelli che – forse con una certa dose di presunzione – ritengo essere miei migliori lavori di sceneggiatura rimangono non realizzati. Al tempo stesso, Silent Trigger, il thriller del 1995 diretto da Russell Mulcahy (Highlander) e interpretato da Dolph Lundgren, rimane quanto di più vicino io abbia mai potuto sperare in una fedele trasposizione dalla parola scritta all’immagine.

Tornando alla tua attività di scrittore, che hai più volte dichiarato di aver privilegiato ultimamente, sei stato definito da Oreste Del Buono il padre fondatore dello “spaghetti tecno-thriller”. Ti riconosci in questa definizione o preferiresti evitare di essere inquadrato in un genere?
Al contrario, sono ben lieto, addirittura orgoglioso (parola forse ingombrante) di fare parte di questo genere in particolare. Il grande snobismo della narrativa italiana è la distinzione tra narrativa “di cultura” e tutto quello che resta. A mio parere, si tratta di una linea di confine assolutamente fasulla. La narrativa è narrativa, punto e basta. È raccontare storie con un principio, un centro e una fine. Storie di conflitti umani, interni ed esterni. Un giorno remoto forse qualcuno ci spiegherà per quale motivo lo Strega premia la cultura mentre il Bancarella premia la scrittura. Da parte mia, intendo rimanere un narratore.

In effetti se c’è una cosa di te che crea particolari difficoltà ai compilatori delle quarte di copertine è quella di ingabbiarti in un genere predefinito. Nei tuoi lavori la contaminazione tra i generi raggiunge livelli inusitati, toccando poliziesco, thriller, azione bellica, spionaggio e chi più ne ha… Ci sono stati dei modelli che ti hanno aiutato a delineare questo tuo stile inconfondibile?
Forse alla parola “inconfondibile” dovremmo sostituire l’espressione “ibrido estremo”. Ritengo che oggi, alba del XXI Secolo, con tutto quello che esiste alle nostre spalle – letterariamente e narrativamente parlando – sia molto difficile scrivere nell’ambito di generi “puri”. Il mio primo libro, il già menzionato Città Oscura era già un ibrido di thriller, hard-boiled e apocalittico. Quindici anni più tardi, Kondor è un ibrido di thriller, war-story e, nemmeno a dirlo, apocalittico. Penso che solamente il poliziotto molto hard-boiled di Corridore nella pioggia e il killer molto “alla John Woo” de L’uomo esterno siano i personaggi meno ibridi da me messi in campo. Sostanzialmente, l’ibrido estremo è e rimarrà una componente basilare delle mie storie.
Per contro, i modelli, certo. La mia icona assoluta rimane Raymond Chandler. È l’autore che ha ridefinito il concetto di “cavaliere con alcune macchie, nessuna paura e molti dubbi”. Quanto alla struttura e complessità delle storie, Frederick Forsyth prima maniera è uno degli autori che più mi hanno influenzato.

Sebbene spesso relegata a puro elemento di contorno, la fantascienza fa spesso capolino nelle tue opere, talvolta nella forma della fantapolitica o del thriller tecnologico. Cos’è che maggiormente ti affascina delle sue risorse, al punto da spingerti a farne un uso così ampio?
A tutti gli effetti, io “vengo” dalla fantascienza. Da ragazzino divoravo gli scaffali di Urania, Galaxy e Galassia a casa dei miei genitori. Per inciso, nei miei anni di Hollywood arrivai a prendere un’opzione e a scrivere una sceneggiatura del grandissimo Year of the Quiet Sun (L’Anno del Sole Quieto, candidato sia al Premio Hugo che al Premio Nebula) lo straordinario apologo sul time-travel di Wilson Tucker.
Oggi, ritengo che ci ritroviamo letteralmente immersi nella fantascienza. Dall’Internet al “tempo reale”, dalla banda larga a Echelon, dai laboratori virali Livello 4 all’ingegneria genetica. Tutto questo È fantascienza. Troppo spesso viene dato per scontato, non sufficientemente analizzato. Ecco perché in un modo o nell’altro, in una misura o nell’altra, la fantascienza entra e continuerà a entrare nel mio lavoro: il pianeta più alieno di tutti è la Terra.

Caso più unico che raro, la tua produzione si articola – salvo qualche eccezione – in almeno due grandi
 filoni coerenti: da una parte la produzione, diremmo, spionistica, dall’altra una saga cominciata con Città Oscura e proseguita attraverso Città di OmbreKondor, fino a Ultima Luce, inquadrati in una storia che dal nostro presente si spinge attraverso continui ribaltamenti di prospettiva e cambi d’epoca fino alla metà circa del secolo XXI. Personaggi e rimandi ad eventi ed organizzazioni si ripetono e mantengono solido il legame tra queste opere altrimenti caratterizzate da ambientazioni e perfino generi diversi. Puoi parlarci un po’ di questo progetto, che se ho ben capito dalle illazioni circolanti in Rete saresti addirittura propenso a proseguire nell’imminente futuro?

Hai centrato in pieno: i miei libri stanno entrando – alcuni più altri meno – a fare parte di un’unica “meta-struttura” narrativa. Fino ad adesso, solamente L’Occhio Sotterraneo – per la natura intrinseca del libro – ne e’ al di fuori.
La serie Sniper – che sto scrivendo per Mondadori Segretissimo e che viene riproposta dalla TEA – mi fornisce un’ottima piattaforma di riferimenti incrociati. In Sniper 2: L’Ultimo Muro (che apparirà in TEA il prossimo marzo 2005) appaiono niente meno che Wolf Hellstrom e Ivan Ratoff di Alla fine della notte. Appare anche un personaggio femminile, Dendra Yaegen, che in un futuro non troppo lontano potrebbe fare nuovamente parlare di sé.
Infine, ormai in molti dei miei libri, appare Ben Yurick, enigmatico pilota da guerra che presentai per la prima volta nel racconto Phoenix. Yurick uomo che proviene da un tempo “diverso” ma che continua a “tornare”, una sorta di testimone della follia distruttiva di tutto e di tutti.
Per cui, rispondendo apertamente alla domanda: sì, il progetto della “meta-struttura” narrativa è destinato a continuare.

Alcuni elementi della tua scrittura sono distintivi della tua penna (battute secche, stile scarno ed
essenziale, grande ritmo e personaggi sempre in bilico tra il bene e il male, verrebbe quasi da dire “tra il peggio e il meno peggio” se mi passi l’espressione). Altri invece sembrano mutuati da grandi scuole anglosassoni, come l’hard-boiled che si riscontra nella profusione di dettagli della tua scrittura iperrealistica e il cyberpunk delle città sovrappopolate del nostro futuro, degli onnipotenti conglomerati economico-commerciali (a proposito, la tua Gottschalk-Yutani Corporation mi sembra parente stretta della Weyland-Yutani Corporation, e qui torniamo al discorso della commistione tra cinema e letteratura), degli individui in lotta contro il sistema e della tecnologia invasiva. In che rapporti sei con l’influsso di questi movimenti?

Che mi occupi di gangster a Los Angeles o di Special Forces in Medio Oriente, le mie tematiche chiave non mutano:
1) il conflitto del singolo con un enorme potere, per definizione malefico;
2) il conflitto del singolo con il proprio “lato oscuro”.
La domanda che mi poni è valida e parte della risposta può essere trovata nella risposta precedente in cui parlo dell’ibrido estremo. Ritengo che la tematica definisca lo stile. Non escludo affatto di scrivere un thriller feroce nello stile sincopato e anfetaminico che richiami quello del prodigioso James Ellroy.
Quanto ai mega-conglomerati, ebbene sì: Gottschalk-Yutani Corp. È parente stretta della Weyland-Yutani Corp. Una sua antesignana? Forse. Non dimentichiamo che il nuovo crimine planetario è la famosa ma soprattutto famigerata globalizzazione.
Si costruiscono catene di industrie pesanti a sud del confine Stati Uniti/Messico (maquiladoras), nelle quali gli operai lavorano quattordici ore al giorno senza aria condizionata, senza assistenza sanitaria e senza copertura sindacale. E si fanno lavorare bambini pakistani sotto gli otto anni di età a costruire mattoni per sedici ore al giorno a cinquanta cent la settimana. Ah, le gioie del costo del lavoro zero…
Tutto questo è destinato a scoppiarci in faccia. È proprio “lo strano attrattore” della meccanica del caos a dirlo, e non entro nei dettagli della equazione logistica e dei limiti intrinseci dei sistemi a molte variabili complesse. Quindi è proprio là, nelle mega-corporazioni, soprattutto militari, che prosperano i “cattivi” delle mie storie. Da qui le ibridazioni cyberpunk e le atmosfere alla Blade Runner di Ultima Luce, quello che potrebbe essere il destino terminale delle megalopoli.

Sergio “Alan D.” Altieri è uno degli assi portanti dell’immaginario di genere in Italia. Per molti versi, il lavoro che ha svolto e continua a svolgere in ambito fantastico, poliziesco e spionistico (non solo come autore, ricordiamo che è anche traduttore e che ha rivestito per una lunga e memorabile stagione, dal 2006 al 2011, il ruolo di Editor del mass market Mondadori, lavorando a stretto contatto con Giuseppe Lippi per Urania e le sue sorelle Urania Collezione e la compianta Epix, e curando le altre collane da edicola made in Segrate, Il Giallo Mondadori, I Classici del Giallo, Segretissimo e Segretissimo-SAS, senza tralasciare l’importantissima esperienza borderline de Il Giallo Mondadori Presenta…), può essere accostato a quello di un ingombrante omonimo, punto di riferimento del western e non solo: l’immenso Sergio Leone. Non a caso Oreste Del Buono, oltre a definirlo “il più americano degli scrittori italiani”, coniò per lui l’appropriata definizione di spaghetti techno-thriller.

Alla prossima NextCon, inserita nella cornice della Italcon di Bellaria, sabato 26 maggio Altieri sarà ospite d’onore, avendo accettato l’invito del curatore della convention connettivista Sandro Battisti. Vogliamo cogliere l’occasione per riproporvi un’intervista ormai storica rilasciata da Altieri al defunto blog Uno Strano Attrattore (perduto, come “lacrime nella pioggia”, con la chiusura della piattaforma di Splinder) e parlare della sua opera, che da allora si è arricchita di importantissimi tasselli, non ultima l’ambiziosa e micidiale Trilogia di Magdeburg. Per consentire ai lettori una più facile fruizione di questo mini-dossier su Altieri, abbiamo pensato di dividerlo in due parti. Il post odierno è quindi dedicato a tracciare un profilo dell’autore e della sua opera, eclettica e variegata. Domani invece riproporremo la lunga intervista di cui sopra, che nel frattempo non ci sembra invecchiata di un solo minuto. (altro…)

China Miéville in pochi anni è diventato uno degli scrittori imprescindibili della narrativa fantastica, dimostrando un’eccezionale abilità narrativa, risolutezza ed effervescenza di idee e di immaginazione, nonché capacità di intessere storie avvincenti e inedite. Embassytown, pubblicato nel 2011, ne è una straordinaria riconferma.

Premetto che la mia opinione è indubbiamente di parte, poiché il romanzo è incentrato su una tematica che mi affascina moltissimo in tutte le sue variegate declinazioni, ovvero il linguaggioEmbassytown, infatti, poggia su un solido sostrato speculativo, che non si traduce in pesanti digressioni meramente teoriche, bensì si fonde con trama e descrizioni per dar vita a un’immersione narrativo-sensoriale-filosofica.

Lo stile caratteristico di questo libro potrebbe essere una delusione o noioso per chi preferisce costruzioni essenzialmente incentrate sul susseguirsi di azione, climax e avvenimenti. Per affrontare Embassytown e gustarlo appieno bisogna lasciarsi avvolgere dal romanzo stesso, dalle impressioni, a volte distinte altre sfocate, che suggerisce.

La storia è narrata direttamente dalla protagonista, Avice Benner Cho, attraverso il suo peculiare punto di vista, filtrato dalla sua percezione e dalle sue emozioni, e dal ricordo degli eventi passati. È spiazzante, soprattutto all’inizio: ci si ritrova in una realtà altra, senza punti di riferimento o dettagli grazie ai quali ricostruire questo mondo intrigante ma sconosciuto, che si svela soltanto nello svolgersi della storia. La complessità – e bellezza – del romanzo non è dovuta solamente a questo aspetto – una vaghezza studiata e cesellata – ma soprattutto allo stile e alle scelte linguistiche, talora ardite, arricchite da termini presi da altre lingue o costrutti inediti o particolari. È un romanzo che non tende a spiegare minuziosamente, che non si profonde in passi retorici, ma mira a coinvolgere in maniera appassionata e magnetizzante, per far riflettere e trasmettere il proprio messaggio proprio grazie ad un forte coinvolgimento empatico, emotivo e figurativo.

La storia si svolge su un pianeta alieno, ove si è stabilita una colonia di esseri umani che convivono in base a delicati equilibri con la specie aliena degli Ariekei, chiamati anche Hosts. Gli Ariekei sono affatto singolari ed estremamente affascinanti: una sorta di ibrido, con sottili e ampie ali e due bocche. La loro peculiarità – un elemento vitale, sacro oserei dire – è il linguaggio, che emettono dalle due bocche distinte, pronunciando ogni parola simultaneamente a due voci, senza alcuna distinzione tra fonia e significato, soprattutto senza mai poter mentire – poiché la loro lingua può riferirsi soltanto a cose reali ed esistenti. Gli esseri umani, abitanti di Embassytown, per poter comunicare e relazionarsi con gli Ariekei, hanno creato, in seguito a manipolazioni genetiche e alla biotecnologia, gli Ambassadors, gli Ambasciatori, individui di spicco, uniti in coppia, Rappresentanti degli umani stessi. Talvolta gli Ariekei, consci della difficoltà di comunicare e comprendere concetti ed idee a loro estranei, utilizzano dei soggetti umani particolarmente predisposti, che fungono da sorta di tramite di quanto inesprimibile altrimenti. Tra costoro c’è anche Avice, che oltre ad essere una immerser – ossia capace di fluttuare, navigare e orientarsi nella parte più sconosciuta dello spazio, l’immer – è stata scelta anche per essere una simile.

“Before the humans came, we didn’t speak so much of many things. Before the humans came, we didn’t speak”. Questa è una esemplificazione della forza dirompente di Embassytown, del saper discorrere attraverso una storia accattivante della fragilità e della doppiezza del linguaggio, del suo significato e del suo senso stesso di esistere, sulla sua enigmaticità ontologica, il suo essere punto di riferimento, di vicinanza ma anche di diversità tra civiltà differenti, del suo legame così ambiguo con la realtà esistente e con l’immaginazione. In un certo senso, questa considerazione si potrebbe tradurre come una riflessione sulla narrativa fantastica stessa, in tutte le sue ramificazioni: come e quale linguaggio può utilizzare una storia che narra qualcosa che non esiste? Raccontando l’immaginario, il linguaggio rende reale ciò che non è oppure è soltanto un susseguirsi di inganni? Queste e altre speculazioni possibili sono infinite e tutte meravigliose, così intrinsecamente connaturate all’esistenza stessa, così disorientanti perché spogliano l’uomo di alcune certezze basilari – l’esistenza di ciò che è a cui egli dà nome.

Se la tematica richiama Babel-17 di Samuel R. Delany, Embassytown si colloca decisamente su un altro livello, è molto più profondo, sofferto, sottende un dramma esistenziale-filosofico ben più forte. Un palpito simile, soprattutto nell’intima, tormentata e delicata contrapposizione tra l’uguale e il diverso (uomo/alieno), mi ricorda maggiormente alcune straordinarie pagine di Ursula K. Le Guin; così come alcune riflessioni sul legame ontologico tra linguaggio e realtà non ha potuto non richiamarmi lo straordinario dibattito interno alla poesia italiana del Novecento.

Un romanzo, quindi, che assorbe completamente, affascina, dai tratti talora così intimi quanto in altri passi quasi epici, che, nonostante non sia impeccabile, personalmente credo si possa annoverare non solo come alto esempio di narrativa fantastica, ma osare classificare come letteratura.

Sul sito ufficiale dedicato a Philip K. Dick, precursore del nostro immaginario, gli eredi dell’autore californiano hanno pubblicato una lettera inedita indirizzata a Jeff Walker della Ladd Company, una delle società che parteciparono alla produzione di Blade Runner. La lettera, che trasmette un entusiasmo contagioso, si segnala come documento incontestabile del livello di gradimento che il lavoro di Ridley Scott seppe guadagnarsi da parte dell’autore che ne aveva fornito l’ispirazione, oltre che del punto di vista di Dick sulla fantascienza di quegli anni.

Suscita una certa emozione leggerne i passaggi, perché la lettera testimonia anche il livello di coinvolgimento a cui giunse Dick semplicemente guardando uno spezzone di Blade Runner, trasmesso durante un servizio che ospitava anche un’intervista a Harrison Ford all’interno di un programma sul cinema mandato in onda dall’emittente locale Channel 7. L’autore rimase sinceramente impressionato dall’estetica di Ridley Scott, apprezzò il lavoro dei diversi artisti e tecnici coinvolti nell’adattamento cinematografico di Do Androids Dream of Electric Sheep? e infine si spinse a profetizzare, sull’onda dell’entusiasmo, una rinascita della fantascienza che negli ultimi anni – secondo il suo giudizio, forse un po’ troppo severo – era “scivolata in una morte monotona, diventando “fragile, derivativa e stantia”.

Il documento fa la sua apparizione nell’anno del trentesimo anniversario dell’uscita nelle sale del capolavoro di Scott, oltre che della prematura scomparsa di Dick che abbiamo già avuto modo di commemorare, sia su HyperNext (in tre puntate: prima, seconda e terza) che in maniera più organica sulle pagine di Delos. Dick seppe cogliere le sfumature di un’opera complessa e, in maniera istintiva, grazie alla sua spiccata sensibilità, riuscì anche ad anticipare l’impatto che sia dal punto del linguaggio che dei contenuti il film avrebbe esercitato negli anni a seguire, sulla letteratura di genere, sul cinema tout-court ma anche sulle forme d’arte più varie (“potreste aver creato una nuova forma, unica nel suo genere, di espressione artistica, qualcosa di mai visto prima, scrive nella sua lettera a Walker). Dopo le esperienze del cyberpunk e il successo delle declinazioni di temi intrinsecamente fantascientifici secondo gli stilemi della letteratura noir e hard-boiled, è difficile smentire le sue previsioni. E gli echi che se ne riescono a cogliere tuttora nelle opere più disparate e in particolare in capolavori della letteratura di SF (come la trilogia di Kovacs di Richard K. Morgan), del cinema (si pensi a Strange Days di Kathryn Bigelow), dell’animazione (Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, da un manga di Masamune Shirow), dei videogiochi (Deus Ex di Warren Spector, prodotto dalla Eidos Interactive) e della televisione (in misura palese nella straordinaria epopea spaziale di Battlestar Galactica, reinventata da Ronald D. Moore e David Eick), stanno a dimostrare che la sua influenza è ben lungi dall’estinguersi.

Per consentire un accesso diretto ai contenuti della lettera di Dick, la pubblichiamo in una traduzione integrale subito dopo il salto. (altro…)

La vita è informazione trasmessa da molecole complesse: l’RNA e il DNA. Le ricerche sul codice genetico che nel 1962 valsero il Premio Nobel per la medicina a Watson, Crick e Wilkins sono alla base della nostra attuale, se pur parziale, comprensione delle basi genetiche della vita. Il modello a doppia elica visualizzato da Odile Speed, moglie di Crick, ha saputo rendere popolare un concetto per molti versi paradossale: il fatto che le informazioni che definiscono le caratteristiche della specie a cui una creatura vivente appartiene e i tratti particolari che definiscono il singolo individuo siano codificate in una stringa molecolare. Il DNA è una macromolecola costituita dalla ripetizione di unità di base e nelle cellule umane è solitamente ripartito in 23 coppie di cromosomi, che nell’insieme costituiscono il genoma umano, formati da circa tre miliardi di basi azotate, per una lunghezza compresa tra 1 e 2 metri, impacchettato per superavvolgimento e racchiuso nel nucleo di ogni nostra cellula. Ogni unità si chiama nucleotide ed è il monomero della catena a doppia elica (definita polimero). Ciascun nucleotide comprende tre sotto-unità:

  • una base azotata
  • uno zucchero pentoso (contenente cinque atomi di carbonio)
  • un gruppo fosfato

Struttura schematica di un segmento di DNA.

La base azotata può essere una di cinque tipi: adenina (A), citosina (C), guanina (G), timina (T) e uracile (U). Le basi azotate si legano a due a due attraverso dei legami a idrogeno. DNA e RNA (una macromolecola più semplice, formata da un singolo filamento, altrettanto importante nella trasmissione delle informazioni biochimiche a livello cellulare) comprendono un sottogruppo dell’insieme di queste basi, ciascuno formato da quattro di esse. Il DNA, in particolare, è formato da coppie A-T oppure C-G. Nell’RNA l’uracile prende il posto della timina.

Lo zucchero è il ribosio per l’RNA, il desossiribosio per il DNA. Il complesso di una base azotata e uno zucchero pentoso  forma un nucleoside. La presenza del gruppo fosfato è responsabile del carattere acido di questi polimeri, da cui il loro nome: acido ribonucleico (RNA) e acido desossiribonucleico (DNA). L’aggiunta di uno o due residui fosforici alla molecola è all’origine della formazione di un nucleoside difosfato o trifosfato (NDP e NTP, rispettivamente), fondamentali per i processi energetici cellulari. In particolare, la reazione per idrolisi che trasforma l’adenosina trifosfato (ATP) in adenosina difosfato (ADP) è la fonte di energia utilizzata dalla cellula per il proprio sostentamento.

In questa brevissima e lacunosa esposizione abbiamo incontrato le due caratteristiche essenziali della vita: informazione da trasmettere ed energia da consumare. Un gioco le cui regole sono severamente iscritte nei vincoli imposti dalla natura e ricordati nella composizione dei nucleotidi di cui sopra, ritenuti non a caso i «mattoni della vita». Da tempo biologi e biochimici s’interrogano sulla validità di queste regole e sui possibili gradi di libertà estraibili dalle restrizioni che impongono. Per esempio: possono esistere polimeri funzionali fondati su altre basi azotate diverse dalle cinque canoniche? Oppure: potremmo sostituire il ribosio e il desossiribosio con un altro zucchero pentoso?

Schema del DNA e alcuni zuccheri pentosi alternativi al desossiribosio.

Diversi team di ricercatori sparsi per il mondo sono giunti quasi simultaneamente ad annunciare nei giorni scorsi i risultati dei loro esperimenti condotti su quest’ultimo fronte. In particolare, un gruppo britannico del Medical Research Council di Cambridge, guidato da Vitor B. Pinheiro, ha esplorato le possibilità degli XNA, ovvero i cosiddetti acidi xenonucleici, come sono stati definiti gli acidi genetici ottenuti usando zuccheri pentosi diversi dal ribosio e dal desossiribosio. Come riportato da Le Scienze, gli zuccheri presi in considerazione sono l’arabinosio, il 2-fluoro-arabinosio, il treosio, un analogo bloccato del ribosio, l’anidroesitolo e il cicloesene, che originano le varianti ANA, FANA, TNA, LNA, HNA e CeNA degli acidi nucleici finora noti. Per tutti questi XNA, è stato possibile ricavare in laboratorio uno strumento fondamentale alla trasmissione dell’informazione genetica in essi codificati, la polimerasi, vale a dire un enzima capace di leggere, trascrivere e retrotrascrivere le sequenze di acidi nucleici. Non essendo presenti in natura molecole di XNA, non esistevano finora nemmeno le corrispondenti polimerasi. I ricercatori britannici sono riusciti ad assemblare polimerasi artificiali in grado di trascrivere l’informazione del DNA in un XNA e, viceversa, retrotrascrivere l’informazione dall’XNA al DNA.

L’ipotesi riconosciuta da Pinheiro e colleghi è che l’XNA possa funzionare come acido nucleico sintetico, ma è ancora presto per parlare di un sistema genetico del tutto autosufficiente. Siamo ancora ai primi passi. Tuttavia l’esito delle loro ricerche è interessante anche per un altro aspetto, legato al mistero dell’origine stessa della vita. L’assunzione che l’RNA abbia preceduto nella scala dell’evoluzione il DNA, molto più complesso, è largamente riconosciuta dai biologi, sebbene resti ancora oscuro il passaggio precedente, ovvero la formazione dell’RNA dal mondo pre-biotico. A colmare la lacuna si candiderebbe ora proprio uno degli XNA studiati a Cambridge, il TNA, l’acido treosinucleico, che ha la possibilità di legarsi all’RNA con un accoppiamento di basi antiparallelo (come accade nel DNA). Un altro passo avanti verso il futuro della programmazione della vita, quindi. Ma accompagnato da un salto a ritroso nel passato verso una comprensione autentica del processo, a cui non dovrebbe rimanere estranea un’assunzione di responsabilità nella sua forma più piena.